venerdì 15 maggio 2020

"Bracconaggio" fa rima con "sabotaggio (della nostra specie)"

Le migliaia di specie braccate, cause e conseguenze, e le vere radici del problema (e delle soluzioni)



Si diffonde un nuovo virus, di lì a poco si scatena una pandemia e molti Paesi impongono lo stato di quarantena. Mentre l'argomento monopolizza i media di ogni piattaforma e la gente si chiede cosa ne sarà del domani, qualcuno inizia a puntare il dito verso le cause: colpa della devastazione ambientale, in questo caso del traffico illegale di specie protette. E allora ecco che si torna a parlare di etica della caccia, di bracconaggio e di specie in pericolo, e quando si dice che tutto è partito da un mercato della Cina, scatta in automatico lo scaricabarile: tutta colpa dei cinesi, quegli innumerevoli superstiziosi che mangiano ali di cavalletta per curare la diarrea (si scherza!).

Insomma, passano i secoli e i millenni, ma è sempre la solita storia: pur non di ammettere le proprie colpe, si prende l'intera cultura di un Paese e si apre una nuova stagione di caccia alle streghe. Ma la verità è che, fra quelli che esportano, quelli di transito e quelli che importano, quasi tutti gli Stati del mondo sono coinvolti nel mercato nero di piante e animali. Le specie prese di mira si contano a migliaia, i prodotti ricavati non si contano proprio, e chi ci guadagna non è il rivenditore di un mercatino cinese, ma piuttosto le più grandi organizzazioni criminali del pianeta.

La COVID-19? Una delle tante conseguenze di questo crimine di natura, insieme alla distruzione degli habitat, il cambiamento del clima, la povertà e le migrazioni di massa (tanto per dirne alcune). Ma, soprattutto, una classica “catastrofe annunciata”, su cui ricercatori di tutto il mondo avevano messo in guardia già nei primi anni 2000. Finché l'ecosistema è in equilibrio gli effetti su di noi sono così positivi che non ci badiamo nemmeno ma, quando l'equilibrio viene meno e gli effetti diventano negativi, i lamentoni fanno a gara a chi strilla più forte. Perciò, forse, adesso, è arrivato il momento di capire come mai, uccidendo animali fino allo stremo, rischiamo di uccidere anche noi stessi.

Bracconaggio e antibracconaggio: che cosa si intende?



Contrariamente a quanto si può pensare, il fenomeno del bracconaggio non è sempre esistito. Oggi ci sono Riserve Naturali, guardie venatorie, licenze di caccia, ma fino al Medioevo non solo non c’era niente di tutto ciò, ma non esisteva nemmeno il concetto di fauna selvatica come “patrimonio indisponibile dello Stato”. Ciò significava che potenzialmente chiunque aveva la possibilità di darsi alla caccia, fosse per sostentamento o per commercio. Le cose iniziano a cambiare appunto dal Medioevo in poi, quando i signori feudali si attribuiscono l’esclusiva sul diritto di caccia alla selvaggina che “abita” nei loro possedimenti: ecco allora che il “bracconiere” inizia a diventare qualcuno che “osa” cacciare senza diritto la selvaggina di proprietà dei nobili.

Al giorno d’oggi, invece, macchiarsi del reato di bracconaggio può significare molte cose: utilizzare armi da fuoco con matricola abrasa; cacciare senza essere in possesso di una licenza; fare uso di armi o tecniche illegali (come tagliole, veleni, esplosivi…); sforare il limite giornaliero o stagionale di capi da abbattere; cacciare fuori da orari e periodi previsti; cacciare all’interno di aree protette. E soprattutto, cacciare e commerciare specie animali e vegetali protette.

Per quel che riguarda le misure antibracconaggio, ogni Paese del mondo prevede proprie leggi e propri organi di controllo. In Italia, per esempio, vengono attuate da CUFAA (Comando Unità Forestali, Ambientali e Agroalimentari), corpi forestali delle province autonome, Polizia Provinciale, nonché da guardie venatorie volontarie e associazioni di protezione ambientale. A livello internazionale, invece, nel 1973 le Nazioni Unite hanno firmato la CITES (Convenzione sul commercio internazionale delle specie minacciate di estinzione), che non mira propriamente a prevenzione e controllo del bracconaggio, però regola il commercio internazionale di flora e fauna selvatica a rischio di estinzione; la sua attuazione è poi a carico dei singoli Stati. 

Le specie contrabbandate: quali, quante, dove e perché


Nel mondo: 7 settori per 6 Continenti


Forse c’è chi pensa che questo fenomeno interessi i soliti due o tre animali come tigre, elefante e rinoceronte, ma la realtà è che le specie coinvolte sono così tante che farne una panoramica non è affatto semplice. Il “World Wildlife Seizures”, il database mondiale che raccoglie i dati su sequestri di beni di contrabbando, fra il 1999 e il 2015 ha schedato più di 164.000 confische, per un totale di oltre 7000 specie animali e vegetali e 120 Paesi nel mondo coinvolti. Una stessa specie, fra l’altro, può essere contrabbandata all’interno di più mercati, a seconda di quante e quali parti del corpo sono oggetto di interesse. È per questo che, nel tentativo di fare chiarezza, nel 2016 la UNODC (Ufficio delle Nazioni Unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine) ha realizzato un report in cui ha suddiviso tutte queste specie sulla base di 7 grandi settori industriali.

Elefante Africano
1) ARTE, ARREDAMENTO e GIOIELLERIA. Il re indiscusso del settore è l’avorio, ricavato dalle zanne di elefanti africani. Molto ambito come status symbol o per il semplice vanto di possedere un oggetto illegale e difficile da reperire, viene usato nella produzione di gioielli e oggetti di artigianato. Gli elefanti in questione vengono cacciati per lo più in Kenya, Tanzania, Mozambico e Uganda, secondariamente anche Nigeria, Togo, Cameron, Gabon e Congo; l’avorio ricavato transita principalmente via mare, “fa scalo” in Paesi come Vietnam, Emirati Arabi e Singapore e viene destinato soprattutto a Cina e Malaysia. Sommando il bracconaggio alla mortalità naturale, si stima che oltre 100.000 elefanti siano stati uccisi solo fra il 2007 e il 2013. Nel 1979 se ne contavano 1.3 milioni, oggi ne rimangono appena 500.000

2) MODA. I rettili sono i principali bersagli, presi di mira per le loro pelli, con cui si realizzano accessori di tutti i tipi come borse, scarpe o vestiti. Fra gli Alligatoridi, parliamo di 4 specie di coccodrilli, 3 specie di caimani (come il caimano bruno) e l’alligatore del Mississippi. Fra le lucertole, 2 specie di tegu e 2 specie di varani (come il varano d’acqua comune). Fra i serpenti, il cobra sputatore indonesiano, il serpente dei ratti indiano, il pitone rosso coda-corta e il pitone reticolato. Prelevati soprattutto in Cambogia, Indonesia, Malaysia, Argentina e USA, la loro principale destinazione è Singapore, ma una buona fetta se la aggiudicano anche USA, Giappone, Cina, Spagna, Francia e Italia. Secondo i dati della CITES, solo fra il 2005 e il 2013, tutto ciò ha comportato l’uccisione di circa 14 milioni di esemplari di specie protette.
Tigre Siberiana

Rientrano in questo settore anche altre specie come la lontra di fiume, la foca bruna, il pecari e famosi grandi felini come linci, tigri, leoni asiatici, leopardi delle nevi e leopardi nebulosi. Il loro commercio si sviluppa per lo più fra Paesi africani come Guinea, Cameron, Gabon, Kenya e Sud Africa, e Paesi asiatici come Indonesia, Malaysia, India, Thailandia, Vietnam, Cina, Emirati Arabi e Turchia. Il motivo del loro pregio? Principalmente la pelle, usata come ornamento o per semplice status symbol. Nel caso delle tigri, quasi qualsiasi parte del loro corpo è considerata preziosa, un po' per trofei, un po' per vesti rituali, un po' per amuleti e un po' per medicina tradizionale. C’è da ringraziare queste “ragionevoli” motivazioni se oggi rimangono appena 3200 tigri in tutta quanta l’Asia.

3) CIBO, TONICI e MEDICAMENTI. Sono molte le culture in cui, ancora oggi, si ritiene che parti del copro di certi animali siano capaci di curare malattie o perfino conferire abilità dell’animale stesso. Spesso si tratta di credenze così radicate che, anche quando esistono alternative come erbe medicinali, non vengono abbracciate perché non ritenute altrettanto efficaci. È il caso della bile di orso, che contiene il principio attivo UDCA (acido ursodesossicolico), indicato nel trattamento della colangite biliare primitiva. Questo ricopre di “attenzioni indesiderate” cinque specie di orso, cioè l’orso nero asiatico, l’orso nero americano, l’orso bruno, l’orso malese e l’orso labiato. Bisogna ucciderne ben 118 per ricavare appena 1kg di bile.

Altro animale sul podio del settore è il pangolino, un mammifero insettivoro di cui esistono 8 specie, 4 in Africa e 4 in Asia. La sua carne viene tradizionalmente consumata come cibo, la pelle viene usata nel settore conciario e le scaglie sono molto richiese nella medicina tradizionale. Viene cacciato soprattutto in Indonesia, Malaysia, Thailandia, Uganda, Myanmar, Sierra Leone e Filippine, ed esportato quasi totalmente verso Cina e Vietnam. Secondo le stime del “World Wildlife Seizures”, fra il 2007 e il 2013 sono stati contrabbandati circa 15.000 pagolini ogni anno (e si ritiene che si tratti comunque di una piccola fetta di tutto il mercato illegale).

Rinoceronte Bianco del Sud
Infine il rinoceronte, di cui esistono 2 specie in Africa (rinoceronte nero e bianco) e 3 specie in Asia (indiano, di Sumatra e di Giava). Viene braccato da decenni per il suo corno, considerato come un altro dei tanti status symbol, usato in gioielleria e arredamento, e soprattutto creduto un rimedio contro febbre e disturbi cardiovascolari. Quelli africani sono i più contrabbandati, cacciati in Sud Africa, Mozambico, Zimbawe e Kenya, transitano spesso da Emirati Arabi ed Europa, e vengono destinati a Vietnam, Cina, Irlanda, Repubblica Ceca, USA e Thailandia principalmente. Per contare quelli rimasti basta poco: circa 20.000 rinoceronti bianchi, 5.000 neri, 2000 indiani, 300 di Sumatra e 50 di Giava; e considerate che, fino al 1960, solo quelli neri erano più di 100.000.

4) ANIMALI DOMESTICI, ZOO e ALLEVAMENTO. Sulla scia di un delirio simile a quello dello status symbol, una grossa fetta della tratta illegale di animali ha lo scopo di arricchire collezioni personali o creare delle attrazioni capaci di attirare flotte di turisti. È il caso delle grandi scimmie, principalmente orangutan, scimpanzé, bonobo e gorilla.

Ancora più colpite le tartarughe di acqua dolce, come la testuggine dal vomere del Madagascar, la tartaruga collo di serpente dell’Indonesia e la tartaruga scatola flavomarginata della Cina. Cacciate ed esportate soprattutto nel Sud, nel Sud-Est e nell’Est dell’Asia, lo scopo è appunto quello di farne degli animali domestici, ma anche di ricavarne della carne da consumare, oppure ossa e cartilagine da usare nella cosmesi e nella medicina tradizionale. Secondo i registri del “World Wildlife Seizures”, solamente fra il 2005 e il 2015 sono state confiscate circa 88.000 tartarughe vive destinate al mercato illegale.

Ara dalle ali verdi (sinistra) e Ara gialloblù (destra)

Ma quelli più presi di mira sono gli Psittaciformi, meglio noti come “pappagalli”, e che comprendono varie specie come gli ara, i cacatua e i parrocchetti. Dal 2006 dominano il mercato degli uccelli contrabbandati nel settore, vengono catturati soprattutto in Paesi del Sud America come Messico, Boliva e Perù, o in Paesi africani come Cameroon, Congo, Guinea, Chad e Nigeria, e sono esportati per lo più verso USA, Europa, Penisola Arabica e Singapore. Esistono allevamenti, ma non tutte le specie sono facilmente allevabili, e così il grosso degli animali viene prelevato dal selvatico. Visto, poi, che vengono catturati principalmente i pulcini, e che il trasporto avviene per lo più via mare (particolarmente stressante per questi uccelli), tutto ciò si traduce in un elevato tasso di mortalità e in un gran numero di uccelli contrabbandati, cioè circa 17 milioni di esemplari dal 1980 fino ad oggi.

5) FRUTTI DI MARE. Tutte e sette le specie di tartarughe marine sono oggetto di caccia illegale per la loro carne e le loro uova, ma anche per ricavarne oggetti ornamentali. Indonesia, Vietnam e Cina risultano i Paesi più recentemente coinvolti: per dirla in numeri, fra il 2005 e il 2014 sono stati intercettati nel mercato nero 3600 tartarughe e 31.500 uova. Vi sembrano poche? Aspettate a dirlo. Se considerate che ogni tartaruga raggiunge la maturità sessuale intorno ai 35 anni e che, in media, sopravvive un cucciolo su una covata di 1000 uova, capite bene che numeri così “bassi” hanno un impatto ecologico enorme.

Tartaruga Liuto
Altra specie del settore è l’anguilla, largamente consumata come cibo in Cina e Giappone. L’anguilla europea viene catturata soprattutto in Spagna, secondariamente in Portogallo e Regno Unito, ed esportata più che altro verso la Cina. Globalmente, solo fra il 2011 e il 2015 sono stati schedati milioni di esemplari di contrabbando, tant’è che l’anguilla giapponese è considerata specie a rischio dal 2009, mentre dal 2010 l’Unione Europea ha proibito l’esportazione di quella nostrana.

Soprattutto, comunque, la risorsa più ricercata del settore è il caviale, ricavato dalle uova non fecondate di storioni e pesci spatola. Parliamo di 28 specie interessate, pescate soprattutto nel Nord America, nel bacino del Danubio e nel Mar Caspio da Paesi come Iran, Russia, Kazakistan e USA, per poi essere esportato più che altro verso Francia, Germania, Svizzera, Russia e USA. Ad oggi, dato che la pesca intensiva ha portato queste specie quasi all’estinzione, e che nel frattempo si sono sviluppate tecniche di acquacoltura che permettono di allevarle in cattività, il loro mercato illegale si è molto ridotto, e si pensa che si concentri soprattutto a livello locale intorno al Mar Caspio. Tuttavia, solamente in questa zona, la caccia sconsiderata ha portato la popolazione di storioni da 100 milioni nel 1987 a circa 44 milioni ai giorni nostri; non per nulla, nel 2010, la IUCN (Unione internazionale per la conservazione della natura) l’ha dichiarata fra una delle specie a più alto rischio di estinzione al mondo.

Palissandro Africano
6) MOBILIO. E se vi dicessi che, oltre ad animali, il bracconaggio interessa anche delle piante? Si dà per scontato che, quando si parla di “caccia”, si parla solo di fauna, e invece si parla anche di flora. Un esempio per tutti è il palissandro, nome che indica un’ampia gamma di specie di alberi tropicali come il palissandro della Birmania (o “tamalan”), il padauk della Birmania e il palissandro africano (o “kosso”). Il loro legno, spesso fragrante e fatto di sfumature cromatiche molto particolari, è molto apprezzato nell’industria immobiliare per ricavarne mobili, parquet, strumenti musicali o incisioni per l’iconografia religiosa. Viene prelevato per lo più in Paesi come Malaysia, Papua Nuova Guinea, Myanmar, Isole Salomone, Congo, Madagascar e India, ed esportato più che altro verso Emirati Arabi e Cina

7) COSMESI e PROFUMI. Altro settore in cui sono coinvolte delle specie vegetali, da cui si ricavano oli essenziali, profumi, incensi, cosmetici, o articoli per toilette. Il prodotto più famoso è sicuramente l’agar, detto anche “agarwood”, “gaharn”, “jinko” o “oud”, cioè una resina aromatica estratta da sei generi di alberi, principalmente Aquilaria, Gyrinops e Gonystylus. India, Indonesia e Malaysia sono i principali esportatori, mentre Emirati Arabi e Cina i principali importatori. Anche in questo caso esistono piantagioni, ma la qualità dell’agar prodotto non è paragonabile a quella naturale, e così ecco che fra il 2005 e il 2014 sono stati abbattuti in natura circa 70.000 alberi.

E in Italia? Pochi, ma "buoni"


L’Italia, così come l’Europa in generale, è uno dei principali consumatori di pelli di rettili e pellame pregiato in generale, destinati all’industria della moda. Di tutti i tipi di reati ambientali, quelli contro animali e fauna selvatica si piazzano al secondo posto in classifica: i dati del 2017 della CITES parlano di 20.000 accertamenti su animali vivi o loro derivati intercettati nel commercio internazionale; a livello nazionale, secondo il WWF, ogni anno vengono uccisi illegalmente oltre 6 milioni di uccelli, soprattutto fra acquatici e passeriformi.
Lupo Grigio

Secondo il dossier “Bracconaggio Connection” realizzato dal WWF, le aree più critiche sarebbero quattro. Una, le valli bresciane e bergamasche, dove si fa incetta di uccelli come pettirossi, tordi, scriccioli, fringuelli, cince e gufi, che vengono destinati al commercio, a piatti della cucina tradizionale, o a fare da richiami vivi per la cattura di altri esemplari. Al secondo posto il delta del Po, paradiso del bracconaggio nei confronti di uccelli migratori (soprattutto acquatici) e pesci d’acqua dolce come lo storione comune o lo storione cobice. Segue la Sicilia, dove i bracconieri prelevano pulcini dai nidi di aquila del Bonelli, falco lanario e capovaccaio per poi rivenderli a collezionisti, allevatori o falconieri, specialmente del nord Europa e del Medio Oriente. Infine, il “triangolo” Toscana – Marche – Romagna: le credenze nei confronti del lupo come animale “nocivo” e “pericoloso” sono ancora talmente radicate che non solo viene ucciso, ma parti dell’animale o l’intero cadavere vengono perfino esposti pubblicamente all’ingresso di paesi, su cartelli stradali o alle fermate di autobus, come successo nel 2017 a Pitigliano, Suvereto e Rimini.

L'identikit del bracconiere moderno


Ieri plebei affamati, oggi criminali organizzati


Se la figura del bracconiere che vive nel vostro immaginario è quella di un contadino ignorante, burbero e ottuso che cattura qualche fringuello per risparmiare sulla spesa, o che uccide qualche lupo che gli minaccia il bestiame, preparatevi a fare marcia indietro. In alcuni casi è davvero così, come in quelli italiani che ho appena descritto; anzi, in certi altri dietro al reato si nasconde la necessità: sembrerà incredibile, ma anche in Italia esistono situazioni economiche così gravi da spingere alla caccia illegale per vero e proprio fabbisogno di cibo. Figuratevi, quindi, quale può essere la situazione nei Paesi più poveri del mondo.

Tutto questo, però, non è che una goccia nell’oceano, e il motivo risiede nell’enorme giro d’affari che sta dietro al commercio illegale di specie selvatiche. Secondo la UNEP (Programma delle Nazioni Unite per l'ambiente), il saccheggio illegale di natura (compreso di tagli di foreste, estrazioni minerarie e commercio di rifiuti tossici) vale circa $ 213 miliardi all’anno, il che lo rende il 4° principale mercato criminale dopo il traffico di droga, di beni contraffatti e di esseri umani; solo il commercio di specie selvatiche è stimato sui $ 23 miliardi all’anno. Vi state chiedendo come è possibile raggiungere queste cifre? È presto detto. Tanto per fare tre esempi, calcolate che 1kg di avorio vale 100 $ a livello locale e 3000 $ sul mercato internazionale; il caviale ricavato dallo storione beluga, la specie più rinomata, tocca i 10.000 $/kg; un corno di rinoceronte può arrivare perfino a 66.000 $/kg, superando di netto sia oro che platino.

Capite bene, allora, che questi numeri fanno di flora e fauna selvatica una facilissima fonte di alti profitti, e non per contadini, ma piuttosto per movimenti insurrezionali, gruppi terroristici e criminalità organizzata. Narcotrafficanti del Sud America, “Lord’s Resistance Army” del Congo e “Boko Haram” della Nigeria, Separatisti del Kashmir in India, clan mafiosi in Italia. I bracconieri di oggi, in molti casi, sono veri e propri eserciti armati, che a volte agiscono in prima persona, in altre sfruttano popolazioni locali con minacce o con la promessa di facili guadagni. Riescono a far arrivare i prodotti sul mercato nero grazie ad una fittissima rete di collegamenti, spesso ottenuta tramite corruzione di funzionari pubblici (che omettono controlli) e operatori di mezzi commerciali (che fanno arrivare la merce fino a porti e aeroporti principali). Nonché tramite il deep web, quella “parte nascosta” del web in cui, secondo la IFAW (International Fund for Animal Welfare), il 70% dei prodotti di fauna selvatica venduto è illegale
Militanti di "Boko Haram"

Secondo il rapporto della UNODC, comunque, considerando i numeri di esemplari coinvolti e il loro valore sul mercato, il coinvolgimento di questi gruppi può essere valido nel caso del commercio di grandi felini, rinoceronti e volatili, ma non, per esempio, nel caso dell’avorio: la maggior parte, oggi, proviene da Paesi in stato di pace come la Tanzania, non da Paesi che ospitano gruppi insurrezionali; inoltre, a differenza di eroina e cocaina, la “fonte” dell’avorio (cioè gli elefanti) non è illimitata. Tutto questo suggerisce allora che il commercio sia trattato da “specialisti del settore”, e che i valori così elevati sul mercato siano il frutto di speculazione più che di reale domanda. 

L'altro bracconaggio: "vendetta" e fabbisogno di cibo


Oltre ad un bracconaggio “per commercio”, come quello che ho descritto fino ad ora e che è di sicuro quello più influente, ne esiste almeno un altro tipo, quello cosiddetto “per ritorsione”, di sicuro il più ironico di tutti. Fra deforestazioni e urbanizzazione, l’uomo sta invadendo sempre di più gli ultimi spazi “incontaminati” rimasti sul pianeta, tanto che ha già trasformato (o distrutto) circa i 2/3 delle terre emerse. Questo ha portato a ridurre sempre di più gli habitat di numerosissime specie, per cui c'è poco da stupirsi che si possa assistere ad episodi di questo tipoelefanti che si abbeverano a pozzi di zone desertiche, primati che saccheggiano coltivazioni, lupi e grandi felini che attaccano il bestiame allevato. Insomma, un altro dei tanti esempi di problemi che, gira e rigira, l'uomo si ritrova ad affrontare nientedimeno che per colpa sua. Ma ormai si sa, l'ignoranza rende più ciechi di una talpa, e così ecco che la soluzione adottata da alcuni è quella di addossare la colpa agli animali stessi ed ucciderli "per vendetta".

Boscimani nel Kalahari (di Basie Van Zyl) 
Infine, il bracconaggio “per sussistenza”, di cui spesso vengono accusate ingiustamente le popolazioni indigene. Boscimani, Baiga, Soliga, Munda, Khadia, tutte popolazioni native di Africa o India che sopravvivono da millenni in queste terre solamente di caccia e raccolta. La fauna selvatica, per molte di queste, rappresenta ancora oggi l’unico modo di integrare proteine nella loro dieta, eppure il problema delle estinzioni non si sono mai ritrovate a fronteggiarlo. Poi sono arrivati i colonialisti, le multinazionali, la criminalità organizzata e i gruppi terroristici; gli habitat sono stati devastati, gli animali cacciati senza ritegno, innumerevoli specie condotte all’estinzione; così, grazie anche alla pressione di associazioni conservazioniste, sono state create riserve naturali e sono state emanate leggi contro la caccia di frodo. Ma sono anche state sfrattate dalle loro terre di origine tutte queste popolazioni.

Le proteste non hanno tardato a farsi sentire, e infatti sono state approvate delle leggi che hanno riconosciuto a questi popoli il loro diritto di continuare a vivere nelle terre dei loro antenati. Eppure, ormai da decenni, questi indigeni continuano ad essere accusati di bracconaggio, vengono cacciati, ingannati con false documentazioni di risarcimento, minacciati, o perfino torturati ed uccisi da autorità locali e “guardiaparco”. E intanto, nel Botswana, l’Organizzazione del Turismo utilizza immagini di cacciatori Boscimani per attirare i turisti, e collezionisti di trofei pagano fino ad 8.000 $ per cacciare all’interno di ranch privati che sono esentati dai divieti sulla caccia.

Le conseguenze del bracconaggio sono ambientali, socio-economiche e sulla salute pubblica


Desertificazione, cambio del clima e migrazioni di massa


Dopo la distruzione degli habitat, il commercio illegale di specie selvatiche è considerato la 2^ più grande causa di estinzioni. E infatti, che cosa succede quando una specie vivente si estingue? È vero che si producono delle conseguenze a cascata sull’ecosistema intero e, quindi, anche su noi umani? Sono domande a cui si potrebbe rispondere come minimo con un altro intero articolo come questo, ma un accenno lo possiamo già fare.

Fra le specie vegetali, un caso per tutti è quello del palissandro africano. È nativo del Sahel, quella fascia di territorio dell’Africa sub-sahariana che tocca più di una decina di Stati dall’ovest all’est del continente. È una pianta piuttosto resistente al fuoco, è un ottimo azoto-fissatore e sopravvive bene, per l’appunto, in zone desertiche. Tutto questo lo rende una specie ideale per mantenere o ripristinare il contenuto di nutrienti del suolo e, ovviamente, rappresenta un’importante disponibilità di vegetazione in zone aride. Se dunque viene prelevato in quantità eccessive, il risultato inevitabile è quello di esporre le aree in cui cresce al rischio di desertificazione, da cui estinzione di altre specie, perdita di nutrienti del suolo, avanzamento del deserto, compromissione di agricoltura e allevamento, e migrazione delle popolazioni che da queste dipendono.  

Per il Regno Animale, l’esempio della tigre è quello che rende meglio l’idea. Come al solito, è una questione di equilibrio: da che mondo è mondo, un predatore, il più delle volte, si nutre di animali erbivori, che a loro volta si nutrono di vegetazione; se il bilancio fra i tre si mantiene in pari nessun problema, ma se, per esempio, i predatori vengono a mancare, succede che gli erbivori si diffondono, e allora la vegetazione si dirada. Nel caso della tigre, è stato calcolato che, per ogni esemplare protetto, si conservano oltre 10.000 ettari di foresta. E parliamo di un animale che non solo sta al vertice della catena alimentare, ma che è diffuso negli habitat più svariati e di più grande importanza ecologica al mondo. Cacciare fino all’estinzione una specie come questa, allora, significa danneggiare interi ecosistemi, e quindi compromettere la stabilità climatica, la difesa da eventi estremi e perfino la disponibilità di acqua e cibo per le popolazioni che vivono in queste aree.

I Paesi più poveri sono derubati della loro possibilità di riscatto


Il turismo, e in particolare l’ecoturismo, è oggi riconosciuto come fattore chiave per lo sviluppo del 90% di quei Paesi che sono ricchi di biodiversità, ma che sono fra i più poveri del mondo. È stato stimato che un solo esemplare di leone può fruttare 500.000 $ all’anno per la sola economia locale. Il turismo legato alle balene, nel 2008, ha fatturato nel mondo $ 2.1 miliardi e ha creato 13.000 posti di lavoro. In Italia, le attività di immersione nell’Area Marina Protetta di Tavolara, legate anche alla presenza di cernie, hanno generato € 23 milioni solamente nel 2009.

Il bracconaggio, allora, è sia causa che conseguenza dell'instabilità sociale e politica di certi Paesi: una conseguenza, perché è una facile alternativa sia di cibo che di profitti in Stati dilaniati da guerra, fame e povertà; ma anche una causa, perché priva questi stessi Stati delle loro migliori fonti di sviluppo. Insomma, è proprio il caso di dirlo: una qualsiasi specie vale molto di più da viva che da morta

Spillover: il “salto di specie” all’origine della COVID-19


Le foreste rappresentano l’habitat per l’80% della biodiversità sulla Terra. Quelle tropicali sono le più ricche di vita, capaci di ospitare milioni di specie che non sono soltanto animali e piante, ma anche funghi, batteri e virus. Per la maggior parte di tratta di parassiti “benevoli”, cioè che non riescono a vivere al di fuori del loro organismo ospite, e che quindi vivono in equilibrio con esso; in pratica, quell’organismo fa da “portatore sano”. I Coronavirus non fanno eccezione: sono una vasta famiglia di virus diffusa per lo più fra uccelli e mammiferi, negli anni passati ne sono stati scoperti oltre un centinaio solo sui pipistrelli che vivono nella Grotta Shitou, in Cina, per la maggior parte innocui, ma almeno una dozzina appartenenti al gruppo “SARS”; a livello globale, si stima che possano esistere migliaia di Coronavirus ancora sconosciuti ospitati in varie specie di pipistrelli.
Pipistrello Frugivoro

E perché proprio loro? Il fatto è che parliamo di animali che hanno una lunga storia evolutiva, cosa che li ha portati a entrare in contatto (ed in equilibrio) con molti virus. In più sono capaci di volare, il che significa che possono contrarre virus (e diffonderli) su aree molto ampie. Sono molto abbondanti in Asia, in particolare nella Cina meridionale, così come in Medio Oriente, Africa ed Europa. E soprattutto sono molto sociali, tanto che in un unico sito se ne possono trovare fino ad 1 milione. E questo è un fattore cruciale: so che sfugge molto al nostro concetto di “essere vivente”, ma anche un virus lo è, e come tale è capace di evolversi e mutare; ecco perché una grotta di pipistrelli, vero e proprio “magazzino naturale” di virus, è l’ambiente perfetto in cui questi possono mescolare il proprio genoma non solo con quello di moltissimi individui, ma anche con quello di moltissimi altri virus, dando così origine a dei ceppi nuovi di zecca.

Ed è a questo punto che entra in gioco il bracconaggio. Nei mercati dove si smercia la fauna selvatica, gli animali vengono ammassati all’interno di gabbie anguste, venduti vivi o macellati sul posto. Tra contatto diretto, graffi, morsi e scambio di liquidi corporei, se i virus trovano ospiti “più favorevoli”, è molto facile che si verifichi il famoso “spillover”, cioè il passaggio di un virus da una specie all’altra, cosa che porta alla nascita di altri nuovi ceppi. Nel caso del SARS-CoV-2, le analisi del genoma fanno pensare che tutto sia partito da dei pipistrelli frugivori originari di Yunnan, poi è “saltato” ad una specie intermedia (forse il pangolino, ma non è ancora certo), e da lì è arrivato fino all’uomo.

Prima del SARS-CoV del 2002, i Coronavirus erano relativamente sconosciuti, e associati a poche patologie come il comune raffreddore. Il SARS-CoV-2 è un nuovo ceppo di Coronavirus, che ha il 70% del patrimonio genetico simile a quello del SARS-CoV, ma se ne differenzia per essere più contagioso; tra l’altro, a sua volta è diviso in due ceppi, uno di origine ancora ignota, l’altro è quello che ha causato la pandemia, più contagioso del “fratello”, e che ha avuto origine a Wuhan. Un posto dove, per l’appunto, si trova uno storico mercato di fauna selvatica.

È la prima volta nella storia che assistiamo ad una cosa del genere? Assolutamente no. La COVID-19 è uno dei tanti esempi di zoonosi, cioè malattie trasmesse all’uomo da altri animali. Ad oggi se ne conoscono oltre 200, tant’è che il 75% delle malattie umane conosciute deriva da zoonosi, e il 60% delle cosiddette “malattie emergenti” è trasmesso da animali selvatici. Ma le zoonosi emergenti compaiono oggi ad un ritmo mai visto prima: Ebola (1976 e 2014), HIV-1 e HIV-2 (1983-1986), West Nile (1999), SARS (2002), influenza aviaria H5N1 (2003), influenza suina H1N1 (2009), MERS (2012), influenza aviaria H7N9 (2013) e Zika (2014). Tutte zoonosi partite da animali selvatici come pipistrelli, primati, uccelli o zanzare, poi passate ad ospiti intermedi tipo i suini (H1N1), i dromedari (MERS), le civette delle palme (SARS-CoV) o, forse, il pangolino (SARS-CoV-2), e che hanno causato da centinaia a milioni di vittime, e danni economici per miliardi di dollari a testa. Per non parlare della comune influenza stagionale: i tipi A e C, storicamente trasmessi all'uomo da uccelli e suini, ogni anno colpiscono circa 1 miliardo di persone e causano fra 123.000 e 203.000 vittime

Nel caso della COVID-19, aggiungete il bracconaggio ad un mondo sempre più globalizzato con collegamenti rapidissimi, alte densità di popolazione, fenomeni di immigrazione sempre più massicci e frequenti, malattie da inquinamento atmosferico che affliggono milioni di persone, ed ecco che “la frittata è fatta”: pandemia, 117 milioni di contagiati, 2.6 milioni di vittime (marzo 2021) e $ 150 miliardi di danni (maggio 2020).

Corruzione, pene inadeguate e divergenze legali: la legislazione funziona, ma ci sono buchi da tappare

L’istituzione della CITES e suo progressivo aggiornamento, lo sviluppo di tecniche di allevamento come l’acquacoltura, la creazione di aree protette, l’azione e la divulgazione di associazioni conservazioniste hanno contribuito non poco alla diminuzione del commercio illegale di specie. Ancora molto c’è da fare, però, sia a livello nazionale che internazionale.

Il catalogo della CITES comprende oggi 35.000 specie, ma sono milioni quelle minacciate e non ancora regolate. Inoltre, la CITES rappresenta una lista delle specie che la comunità internazionale ha accettato di proteggere, ma non regola ogni aspetto del mercato illegale: i piccoli mercati locali, anche se legali, sono di giurisdizione nazionale, così come il bracconaggio, che comporta un enorme danno ambientale anche se i suoi prodotti non vengono esportati.

Le leggi nazionali, spesso, regolano il possesso, l’uso e il commercio delle sole specie locali, non anche di quelle esotiche, col risultato che ogni Paese detta le proprie regole. Così accade che, per una stessa specie, in uno Stato sorgente è legale il prelievo ma non il commercio, ma in uno Stato di destinazione il commercio è legale; oppure, la specie è stata prelevata illegalmente nello Stato sorgente, ma il destinatario non ha basi legali per rifiutare il suo ingresso; o addirittura, né la sorgente né la destinazione hanno leggi che regolamentano una certa specie. Senza contare che, come nel caso dell’Italia, le pene previste per il reato di bracconaggio fanno ridere, se paragonate alla gravità di cacciare specie protette e a rischio di estinzione.

E quando anche tutto questo fosse “in regola”, c’è la questione della corruzione, che porta alla contraffazione di documenti di transito, e soprattutto quella della difficoltà economica di molti dei Paesi coinvolti: gli organismi di controllo sono poco attrezzati, le ispezioni sono scarse, gli agenti non hanno né i mezzi né la formazione per riconoscere le migliaia di specie coinvolte e le migliaia di forme con cui possono essere commerciate.

Le vere radici del problema

Riforma del sistema sanzionatorio, coordinazione legale internazionale, approccio multidisciplinare che comprenda ecologia, sociologia, antropologia e epidemiologia. È evidente che sono questi i “chiodi” su cui bisogna battere per risolvere il problema, ma non sono gli unici, e di sicuro nemmeno i principali.

Prendete il caso della Cina: nel febbraio 2020 ha annunciato il divieto permanente di consumo e commercio di prodotti di fauna selvatica, salvo per scopi di ricerca. Ma quanto può essere efficace un divieto contro secoli e secoli di tradizione? Di sicuro è una svolta importante e necessaria, che degli effetti positivi li avrà, ma a cosa può servire “proibire” se le credenze e le abitudini delle persone in tema di salute e alimentazione rimangono le stesse? Probabilmente servirà ad alimentare il mercato nero sempre di più. Questo è per dire che, come al solito, le leggi non sono altro che un palliativo: buone per risolvere il sintomo del problema, ma solo fino a quando non si conosce e si agisce sulla causa.

E questa causa si conosce? Non solo si conosce, ma si conosce talmente bene da sapere che ce n’è più di una, e il bello è che sono sotto gli occhi di tutti. Come spesso accade, per trovare le risposte basta porsi le giuste domande: che cosa può giustificare, ancora oggi, un odio e una paura tanto inveterate nei confronti di animali come il lupo? Come si spiega che i maggiori gruppi terroristici del mondo sorgono nei Paesi più poveri in economia ma più ricchi di risorse? Com’è possibile che milioni di persone continuino ad affidare la propria salute a tecniche tradizionali? Cosa si nasconde dietro al famigerato “status symbol”?

Qualcuno le bollerà subito come “seghe mentali”, ma pensate che nelle risposte a queste domande si cela il motivo per cui oggi ci ritroviamo in mezzo ad una pandemia. Come nel caso degli effetti delle estinzioni, forse non basterebbe un articolo a testa per chiarirle tutte, ma un’infarinatura generale si può sempre fare: prendete un’istruzione scolastica fatta di nozionismo inutile, una scarsa abitudine alla lettura e finanziamenti pilotati verso altri interessi, e otterrete una cultura ambientale che rasenta lo zero; prendete l’80% del PIL mondiale, concentratelo nelle mani di pochi Paesi, poche industrie e poche famiglie, e otterrete povertà, ignoranza e malcontento che alimentano superstizioni, terrorismo e estremismi di ogni sorta; e infine aggiungeteci una pessima cultura psicologica, e dei media che spingono verso modelli sociali fatti di apparenza e consumismo, e otterrete persone che identificano sé stesse con gli oggetti che possiedono piuttosto che con le persone che sono. Queste sono le vere “radici del problema”, e finché agiremo sul resto sarà solo un tampone.

C’è chi dice che bisogna andare dagli indigeni a insegnargli come essere sostenibili, prima che la loro caccia porti all’estinzione di qualche “specie chiave”. Un’affermazione di un’arroganza senza precedenti, visto che se quella specie è a rischio la colpa è del resto del mondo. La verità è che gli indigeni sanno essere ecologici e sostenibili da migliaia di anni, senza nemmeno sapere che nel vocabolario esistono parole per definirlo. Forse sono loro che devono insegnare qualcosa a noi


Articoli correlati




Fonti: