5) FRUTTI DI MARE.
Tutte e sette le specie di tartarughe marine sono oggetto di
caccia illegale per la loro carne e le loro uova,
ma anche per ricavarne oggetti ornamentali. Indonesia, Vietnam e
Cina risultano i Paesi più recentemente coinvolti: per dirla in numeri, fra il
2005 e il 2014 sono stati intercettati nel mercato nero 3600 tartarughe e
31.500 uova. Vi sembrano poche? Aspettate a dirlo. Se considerate che
ogni tartaruga raggiunge la maturità sessuale intorno ai 35
anni e che, in media, sopravvive un cucciolo su una
covata di 1000 uova, capite bene che numeri così “bassi” hanno un
impatto ecologico enorme.
 |
| Tartaruga Liuto |
Altra specie del settore è l’
anguilla,
largamente consumata come
cibo in Cina e Giappone. L’
anguilla
europea viene catturata soprattutto in Spagna, secondariamente in
Portogallo e Regno Unito, ed esportata più che altro verso la Cina.
Globalmente,
solo fra il 2011 e il 2015 sono stati schedati
milioni di esemplari
di contrabbando, tant’è che l’anguilla giapponese è considerata
specie a
rischio dal 2009, mentre dal 2010 l’Unione Europea ha proibito l’esportazione
di quella nostrana.
Soprattutto, comunque, la risorsa
più ricercata del settore è il caviale, ricavato dalle uova non
fecondate di storioni e pesci spatola. Parliamo di 28
specie interessate, pescate soprattutto nel Nord America, nel bacino
del Danubio e nel Mar Caspio da Paesi come Iran, Russia, Kazakistan e USA, per
poi essere esportato più che altro verso Francia, Germania, Svizzera, Russia e
USA. Ad oggi, dato che la pesca intensiva ha portato queste
specie quasi all’estinzione, e che nel frattempo si sono sviluppate
tecniche di acquacoltura che permettono di allevarle in
cattività, il loro mercato illegale si è molto ridotto, e si pensa che si
concentri soprattutto a livello locale intorno al Mar
Caspio. Tuttavia, solamente in questa zona, la caccia sconsiderata ha
portato la popolazione di storioni da 100 milioni nel 1987 a
circa 44 milioni ai giorni nostri; non per nulla, nel 2010, la
IUCN (Unione internazionale per la conservazione della natura) l’ha dichiarata
fra una delle specie a più alto rischio di estinzione al mondo.
 |
| Palissandro Africano |
6) MOBILIO. E se vi dicessi
che, oltre ad animali, il
bracconaggio interessa
anche
delle piante? Si dà per scontato che, quando si parla di “caccia”, si
parla solo di fauna, e invece si parla anche di flora. Un esempio per tutti è
il
palissandro, nome che indica
un’ampia gamma di specie di alberi
tropicali come il palissandro della Birmania (o “tamalan”), il padauk
della Birmania e il palissandro africano (o “kosso”). Il loro
legno,
spesso
fragrante e fatto di
sfumature cromatiche
molto particolari, è molto apprezzato nell’
industria immobiliare per
ricavarne mobili, parquet, strumenti musicali o incisioni per l’iconografia
religiosa. Viene
prelevato per lo più in Paesi come Malaysia, Papua Nuova Guinea,
Myanmar, Isole Salomone, Congo, Madagascar e India, ed esportato più che altro
verso
Emirati Arabi e Cina.
7) COSMESI e PROFUMI.
Altro settore in cui sono coinvolte delle specie vegetali, da cui si ricavano oli
essenziali, profumi, incensi, cosmetici, o articoli per toilette. Il
prodotto più famoso è sicuramente l’agar, detto anche “agarwood”,
“gaharn”, “jinko” o “oud”, cioè una resina aromatica
estratta da sei generi di alberi, principalmente Aquilaria, Gyrinops
e Gonystylus. India, Indonesia e Malaysia sono i principali esportatori,
mentre Emirati Arabi e Cina i principali importatori. Anche in questo caso
esistono piantagioni, ma la qualità dell’agar prodotto non è
paragonabile a quella naturale, e così ecco che fra il 2005 e il 2014 sono
stati abbattuti in natura circa 70.000 alberi.
E in Italia? Pochi, ma "buoni"
L’Italia, così come l’Europa in
generale, è uno dei principali consumatori di pelli di rettili e pellame
pregiato in generale, destinati all’industria della moda.
Di tutti i tipi di reati ambientali, quelli contro animali
e fauna selvatica si piazzano al secondo posto in
classifica: i dati del 2017 della CITES parlano di 20.000 accertamenti
su animali vivi o loro derivati intercettati nel commercio internazionale; a
livello nazionale, secondo il WWF, ogni anno vengono uccisi illegalmente oltre
6 milioni di uccelli, soprattutto fra acquatici e passeriformi.
 |
| Lupo Grigio |
Secondo il dossier “Bracconaggio
Connection” realizzato dal WWF, le aree più critiche sarebbero quattro. Una, le valli bresciane e bergamasche, dove si fa incetta di uccelli
come pettirossi, tordi, scriccioli, fringuelli, cince e gufi, che vengono
destinati al commercio, a piatti della cucina tradizionale, o a fare da
richiami vivi per la cattura di altri esemplari. Al secondo posto il delta
del Po, paradiso del bracconaggio nei confronti di uccelli
migratori (soprattutto acquatici) e pesci d’acqua dolce
come lo storione comune o lo storione cobice. Segue la Sicilia,
dove i bracconieri prelevano pulcini dai nidi di aquila del
Bonelli, falco lanario e capovaccaio per poi rivenderli a collezionisti,
allevatori o falconieri, specialmente del nord Europa e del Medio Oriente. Infine, il “triangolo” Toscana – Marche – Romagna: le credenze
nei confronti del lupo come animale “nocivo” e “pericoloso” sono
ancora talmente radicate che non solo viene ucciso, ma parti dell’animale
o l’intero cadavere vengono perfino esposti pubblicamente all’ingresso
di paesi, su cartelli stradali o alle fermate di autobus, come successo nel
2017 a Pitigliano, Suvereto e Rimini.
L'identikit del bracconiere moderno
Ieri plebei affamati, oggi criminali organizzati
Se la figura del bracconiere
che vive nel vostro immaginario è quella di un contadino
ignorante, burbero e ottuso che cattura qualche fringuello
per risparmiare sulla spesa, o che uccide qualche lupo che gli
minaccia il bestiame, preparatevi a fare marcia indietro. In alcuni casi
è davvero così, come in quelli italiani che ho appena descritto; anzi, in
certi altri dietro al reato si nasconde la necessità: sembrerà
incredibile, ma anche in Italia esistono situazioni economiche
così gravi da spingere alla caccia illegale per vero e proprio fabbisogno
di cibo. Figuratevi, quindi, quale può essere la situazione nei Paesi più poveri del mondo.

Tutto questo, però, non è che una
goccia nell’oceano, e il motivo risiede nell’
enorme giro d’affari
che sta dietro al commercio illegale di specie selvatiche. Secondo la
UNEP
(Programma delle Nazioni Unite per l'ambiente), il
saccheggio illegale di
natura (compreso di tagli di foreste, estrazioni minerarie e commercio
di rifiuti tossici) vale circa
$ 213 miliardi all’anno, il che lo
rende il
4° principale mercato criminale dopo il traffico di
droga, di beni contraffatti e di esseri umani; solo il
commercio di
specie selvatiche è stimato sui
$ 23 miliardi all’anno. Vi
state chiedendo come è possibile raggiungere queste cifre? È presto detto.
Tanto per fare tre esempi, calcolate che
1kg di avorio vale 100 $
a livello locale e
3000 $ sul mercato internazionale; il
caviale
ricavato dallo
storione beluga, la specie più rinomata, tocca i
10.000
$/kg; un
corno di rinoceronte può arrivare perfino a
66.000
$/kg, superando di netto sia oro che platino.
Capite bene, allora, che questi
numeri fanno di flora e fauna selvatica una
facilissima fonte di alti
profitti, e non per contadini, ma piuttosto per
movimenti
insurrezionali,
gruppi terroristici e
criminalità
organizzata.
Narcotrafficanti del Sud America, “
Lord’s
Resistance Army” del Congo e “
Boko Haram” della Nigeria,
Separatisti
del Kashmir in India, clan
mafiosi in Italia. I bracconieri di oggi, in molti casi, sono veri e propri eserciti armati, che a
volte agiscono in prima persona, in altre
sfruttano popolazioni locali
con minacce o con la promessa di facili guadagni. Riescono a far arrivare i
prodotti sul mercato nero grazie ad una
fittissima rete di collegamenti,
spesso ottenuta tramite
corruzione di funzionari pubblici (che
omettono controlli) e operatori di
mezzi commerciali (che fanno
arrivare la merce fino a porti e aeroporti principali). Nonché tramite il
deep
web, quella “parte nascosta” del web in cui, secondo la
IFAW (International
Fund for Animal Welfare), il
70% dei prodotti di fauna selvatica venduto è
illegale.
 |
| Militanti di "Boko Haram" |
Secondo il rapporto della UNODC,
comunque, considerando i numeri di esemplari coinvolti e il loro valore sul
mercato, il coinvolgimento di questi gruppi può essere valido nel
caso del commercio di grandi felini, rinoceronti e volatili, ma non, per
esempio, nel caso dell’avorio: la maggior parte, oggi, proviene
da Paesi in stato di pace come la Tanzania, non da Paesi che
ospitano gruppi insurrezionali; inoltre, a differenza di eroina e cocaina, la “fonte”
dell’avorio (cioè gli elefanti) non è illimitata. Tutto questo
suggerisce allora che il commercio sia trattato da “specialisti del
settore”, e che i valori così elevati sul mercato siano il frutto di speculazione più che di reale domanda.
L'altro bracconaggio: "vendetta" e fabbisogno di cibo
Oltre ad un bracconaggio “per
commercio”, come quello che ho descritto fino ad ora e che è di sicuro quello
più influente, ne esiste almeno un altro tipo, quello cosiddetto “per
ritorsione”, di sicuro il più ironico di tutti. Fra deforestazioni
e urbanizzazione, l’uomo sta invadendo sempre di più gli ultimi spazi “incontaminati”
rimasti sul pianeta, tanto che ha già trasformato (o distrutto) circa i 2/3
delle terre emerse. Questo ha portato a ridurre sempre di più gli
habitat di numerosissime specie, per cui c'è poco da stupirsi che si possa assistere ad episodi di questo tipo: elefanti che si abbeverano a pozzi di zone desertiche, primati
che saccheggiano coltivazioni, lupi e grandi felini che attaccano
il bestiame allevato. Insomma, un altro dei tanti esempi di problemi che, gira e rigira, l'uomo si ritrova ad affrontare nientedimeno che per colpa sua. Ma ormai si sa, l'ignoranza rende più ciechi di una talpa, e così ecco che la soluzione adottata da alcuni è quella di addossare la colpa agli animali stessi ed ucciderli "per vendetta".
 |
| Boscimani nel Kalahari (di Basie Van Zyl) |
Infine, il bracconaggio “
per
sussistenza”, di cui spesso vengono accusate ingiustamente le
popolazioni indigene.
Boscimani, Baiga, Soliga, Munda, Khadia,
tutte popolazioni native di
Africa o India che sopravvivono
da
millenni in queste terre solamente di caccia e raccolta. La fauna
selvatica, per molte di queste, rappresenta ancora oggi
l’unico modo di
integrare proteine nella loro dieta, eppure il problema delle
estinzioni non si sono mai ritrovate a fronteggiarlo. Poi sono arrivati i
colonialisti,
le
multinazionali, la
criminalità organizzata e i
gruppi
terroristici; gli habitat sono stati devastati, gli animali cacciati
senza ritegno, innumerevoli specie condotte all’estinzione; così, grazie anche
alla pressione di associazioni conservazioniste, sono state create
riserve
naturali e sono state emanate
leggi contro la caccia di frodo.
Ma sono anche state sfrattate dalle loro terre di origine tutte queste popolazioni.
Le proteste non
hanno tardato a farsi sentire, e infatti sono state approvate delle leggi
che hanno riconosciuto a questi popoli il loro diritto di continuare a
vivere nelle terre dei loro antenati. Eppure, ormai da decenni, questi
indigeni continuano ad essere accusati di bracconaggio, vengono cacciati,
ingannati con false documentazioni di risarcimento, minacciati,
o perfino torturati ed uccisi da autorità locali e “guardiaparco”.
E intanto, nel Botswana, l’Organizzazione del Turismo
utilizza immagini di cacciatori Boscimani per attirare i turisti, e collezionisti
di trofei pagano fino ad 8.000 $ per cacciare all’interno di ranch
privati che sono esentati dai divieti sulla caccia.
Le conseguenze del bracconaggio sono ambientali, socio-economiche e sulla salute pubblica
Desertificazione, cambio del clima e migrazioni di massa
Dopo la distruzione degli habitat,
il commercio illegale di specie selvatiche è considerato la 2^
più grande causa di estinzioni. E infatti, che cosa succede
quando una specie vivente si estingue? È vero che si
producono delle conseguenze a cascata sull’ecosistema intero e, quindi, anche
su noi umani? Sono domande a cui si potrebbe rispondere come minimo con un
altro intero articolo come questo, ma un accenno lo possiamo già fare.

Fra le
specie vegetali,
un caso per tutti è quello del
palissandro africano. È nativo del
Sahel, quella fascia di territorio dell’
Africa
sub-sahariana che tocca più di una decina di Stati dall’ovest all’est
del continente. È una pianta piuttosto
resistente al fuoco, è un
ottimo
azoto-fissatore e
sopravvive bene, per l’appunto,
in
zone desertiche. Tutto questo lo rende una specie ideale per mantenere
o ripristinare il contenuto di
nutrienti del suolo e, ovviamente,
rappresenta un’importante
disponibilità di vegetazione in zone
aride. Se dunque viene prelevato in quantità eccessive, il risultato
inevitabile è quello di esporre le aree in cui cresce al rischio di
desertificazione,
da cui estinzione di altre specie,
perdita di nutrienti del
suolo, avanzamento del deserto, compromissione di
agricoltura e
allevamento, e
migrazione delle popolazioni che da queste
dipendono.
Per il Regno Animale,
l’esempio della tigre è quello che rende meglio l’idea. Come al
solito, è una questione di equilibrio: da che mondo è mondo, un
predatore, il più delle volte, si nutre di animali erbivori, che a loro volta
si nutrono di vegetazione; se il bilancio fra i tre si mantiene
in pari nessun problema, ma se, per esempio, i predatori vengono a mancare,
succede che gli erbivori si diffondono, e allora la vegetazione si dirada. Nel
caso della tigre, è stato calcolato che, per ogni esemplare protetto,
si conservano oltre 10.000 ettari di foresta. E parliamo di un
animale che non solo sta al vertice della catena alimentare, ma
che è diffuso negli habitat più svariati e di più grande importanza
ecologica al mondo. Cacciare fino all’estinzione una specie come questa,
allora, significa danneggiare interi ecosistemi, e quindi compromettere la stabilità
climatica, la difesa da eventi estremi e perfino la disponibilità
di acqua e cibo per le popolazioni che vivono in queste aree.
I Paesi più poveri sono derubati della loro possibilità di riscatto

Il turismo, e in
particolare l’
ecoturismo, è oggi riconosciuto come fattore chiave
per lo
sviluppo del 90% di quei
Paesi che sono
ricchi di biodiversità, ma che sono fra i
più poveri del mondo. È
stato stimato che
un solo esemplare di leone può fruttare
500.000
$ all’anno per la sola economia locale. Il turismo legato alle
balene,
nel 2008, ha fatturato nel mondo
$ 2.1 miliardi e ha creato
13.000
posti di lavoro. In Italia, le attività di immersione nell’Area Marina
Protetta di Tavolara, legate anche alla presenza di
cernie, hanno
generato
€ 23 milioni solamente nel 2009.
Il bracconaggio, allora, è sia causa che conseguenza dell'instabilità sociale e politica di certi Paesi: una conseguenza, perché è una facile alternativa sia di cibo che di profitti in Stati dilaniati da guerra, fame e povertà; ma anche una causa, perché priva questi stessi Stati delle loro migliori fonti di sviluppo. Insomma, è proprio il caso
di dirlo: una qualsiasi specie vale molto di più da viva che da morta.
Spillover: il “salto di
specie” all’origine della COVID-19
Le foreste
rappresentano l’habitat per l’80% della biodiversità sulla Terra.
Quelle tropicali sono le più ricche di vita, capaci di ospitare milioni
di specie che non sono soltanto animali e piante, ma anche
funghi, batteri e virus. Per la maggior parte di tratta di
parassiti “benevoli”, cioè che non riescono a vivere al di fuori
del loro organismo ospite, e che quindi vivono in equilibrio con
esso; in pratica, quell’organismo fa da “portatore sano”. I Coronavirus
non fanno eccezione: sono una vasta famiglia di virus diffusa per
lo più fra uccelli e mammiferi, negli anni passati ne sono stati scoperti oltre
un centinaio solo sui pipistrelli che vivono nella Grotta Shitou,
in Cina, per la maggior parte innocui, ma almeno una dozzina appartenenti al
gruppo “SARS”; a livello globale, si stima che possano esistere migliaia
di Coronavirus ancora sconosciuti ospitati in varie specie di
pipistrelli.
 |
| Pipistrello Frugivoro |
E perché proprio loro?
Il fatto è che parliamo di animali che hanno una lunga storia evolutiva,
cosa che li ha portati a entrare in contatto (ed in equilibrio) con molti
virus. In più sono capaci di volare, il che significa che possono
contrarre virus (e diffonderli) su aree molto ampie. Sono molto
abbondanti in Asia, in particolare nella Cina meridionale, così come in
Medio Oriente, Africa ed Europa. E soprattutto sono molto sociali,
tanto che in un unico sito se ne possono trovare fino ad 1 milione. E questo è
un fattore cruciale: so che sfugge molto al nostro concetto di “essere
vivente”, ma anche un virus lo è, e come tale è capace di evolversi e
mutare; ecco perché una grotta di pipistrelli, vero e proprio “magazzino
naturale” di virus, è l’ambiente perfetto in cui questi possono mescolare
il proprio genoma non solo con quello di moltissimi individui, ma anche
con quello di moltissimi altri virus, dando così origine a dei ceppi
nuovi di zecca.
Ed è a questo punto
che entra in gioco il bracconaggio. Nei mercati dove si smercia
la fauna selvatica, gli animali vengono ammassati all’interno di gabbie
anguste, venduti vivi o macellati sul posto. Tra contatto diretto,
graffi, morsi e scambio di liquidi corporei, se i virus trovano ospiti “più
favorevoli”, è molto facile che si verifichi il famoso “spillover”,
cioè il passaggio di un virus da una specie all’altra, cosa che
porta alla nascita di altri nuovi ceppi. Nel caso del SARS-CoV-2,
le analisi del genoma fanno pensare che tutto sia partito da dei pipistrelli
frugivori originari di Yunnan, poi è “saltato” ad una specie intermedia
(forse il pangolino, ma non è ancora certo), e da lì è arrivato fino
all’uomo.
Prima del SARS-CoV del 2002, i
Coronavirus erano relativamente sconosciuti, e associati a poche patologie come
il comune raffreddore. Il
SARS-CoV-2 è un
nuovo ceppo
di Coronavirus, che ha il 70% del patrimonio genetico simile a quello del
SARS-CoV, ma se ne differenzia per essere
più contagioso; tra
l’altro, a sua volta è
diviso in due ceppi, uno di origine ancora
ignota, l’altro è quello che ha causato la pandemia, più contagioso del
“fratello”, e che ha avuto origine a
Wuhan. Un posto dove, per l’appunto,
si trova uno
storico mercato di fauna selvatica.
È la prima volta nella
storia che assistiamo ad una cosa del genere? Assolutamente no. La COVID-19
è uno dei tanti esempi di zoonosi, cioè malattie trasmesse
all’uomo da altri animali. Ad oggi se ne conoscono oltre 200,
tant’è che il 75% delle malattie umane conosciute deriva da zoonosi, e il 60%
delle cosiddette “malattie emergenti” è trasmesso da animali selvatici. Ma le zoonosi
emergenti compaiono oggi ad un ritmo mai visto prima: Ebola (1976 e 2014), HIV-1 e HIV-2 (1983-1986), West Nile (1999), SARS (2002), influenza aviaria H5N1 (2003), influenza suina H1N1 (2009), MERS (2012), influenza aviaria H7N9 (2013) e Zika (2014). Tutte zoonosi partite da animali
selvatici come pipistrelli, primati, uccelli o zanzare, poi passate ad ospiti
intermedi tipo i suini (H1N1), i dromedari (MERS), le civette delle palme (SARS-CoV) o, forse, il pangolino
(SARS-CoV-2), e che hanno causato da centinaia a milioni di vittime,
e danni economici per miliardi di dollari a testa. Per non parlare della comune influenza stagionale: i tipi A e C, storicamente trasmessi all'uomo da uccelli e suini, ogni anno colpiscono circa 1 miliardo di persone e causano fra 123.000 e 203.000 vittime.
Nel caso della COVID-19,
aggiungete il bracconaggio ad un mondo sempre più globalizzato con collegamenti
rapidissimi, alte densità di popolazione, fenomeni di immigrazione
sempre più massicci e frequenti, malattie da inquinamento atmosferico
che affliggono milioni di persone, ed ecco che “la frittata è fatta”: pandemia, 117 milioni di contagiati, 2.6 milioni di vittime (marzo 2021) e $ 150 miliardi di danni (maggio 2020).
Corruzione, pene inadeguate e divergenze legali: la legislazione funziona, ma ci sono buchi da tappare
L’istituzione della CITES
e suo progressivo aggiornamento, lo sviluppo di tecniche di allevamento
come l’acquacoltura, la creazione di aree protette, l’azione e la
divulgazione di associazioni conservazioniste hanno contribuito
non poco alla diminuzione del commercio illegale di specie. Ancora molto c’è da
fare, però, sia a livello nazionale che internazionale.
Il catalogo della CITES comprende
oggi 35.000 specie, ma sono milioni quelle
minacciate e non ancora regolate. Inoltre, la CITES rappresenta una lista delle
specie che la comunità internazionale ha accettato di proteggere, ma non
regola ogni aspetto del mercato illegale: i piccoli mercati
locali, anche se legali, sono di giurisdizione nazionale, così come il bracconaggio,
che comporta un enorme danno ambientale anche se i suoi prodotti non vengono
esportati.
Le leggi nazionali,
spesso, regolano il possesso, l’uso e il commercio delle sole specie
locali, non anche di quelle esotiche, col risultato che
ogni Paese detta le proprie regole. Così accade che, per una
stessa specie, in uno Stato sorgente è legale il prelievo ma non il commercio,
ma in uno Stato di destinazione il commercio è legale; oppure, la
specie è stata prelevata illegalmente nello Stato sorgente, ma il destinatario
non ha basi legali per rifiutare il suo ingresso; o addirittura,
né la sorgente né la destinazione hanno leggi che regolamentano una certa
specie. Senza contare che, come nel caso dell’Italia, le pene
previste per il reato di bracconaggio fanno ridere, se
paragonate alla gravità di cacciare specie protette e a rischio di estinzione.
E quando anche tutto questo fosse
“in regola”, c’è la questione della corruzione, che porta alla
contraffazione di documenti di transito, e soprattutto quella della difficoltà
economica di molti dei Paesi coinvolti: gli organismi di
controllo sono poco attrezzati, le ispezioni sono scarse,
gli agenti non hanno né i mezzi né la formazione per riconoscere
le migliaia di specie coinvolte e le migliaia di forme con cui possono essere
commerciate.
Le vere radici del problema
Riforma del sistema
sanzionatorio, coordinazione legale internazionale, approccio multidisciplinare
che comprenda ecologia, sociologia, antropologia e epidemiologia. È evidente
che sono questi i “chiodi” su cui bisogna battere per risolvere
il problema, ma non sono gli unici, e di sicuro nemmeno i
principali.
Prendete il caso della Cina:
nel febbraio 2020 ha annunciato il divieto
permanente di consumo e commercio di prodotti di fauna selvatica,
salvo per scopi di ricerca. Ma quanto può essere efficace un divieto
contro secoli e secoli di tradizione? Di sicuro è una svolta
importante e necessaria, che degli effetti positivi li avrà, ma a cosa può
servire “proibire” se le credenze e le abitudini delle persone in
tema di salute e alimentazione rimangono le stesse? Probabilmente
servirà ad alimentare il mercato nero sempre di più. Questo è per
dire che, come al solito, le leggi non sono altro che un
palliativo: buone per risolvere il sintomo del problema,
ma solo fino a quando non si conosce e si agisce sulla causa.
E questa causa si conosce? Non
solo si conosce, ma si conosce talmente bene da sapere che ce n’è
più di una, e il bello è che sono sotto gli occhi di tutti.
Come spesso accade, per trovare le risposte basta porsi le giuste domande:
che cosa può giustificare, ancora oggi, un odio e una paura
tanto inveterate nei confronti di animali come il lupo? Come si spiega che i maggiori
gruppi terroristici del mondo sorgono nei Paesi più poveri in economia
ma più ricchi di risorse? Com’è possibile che milioni di persone continuino ad
affidare la propria salute a tecniche tradizionali? Cosa si
nasconde dietro al famigerato “status symbol”?
Qualcuno le bollerà subito come
“seghe mentali”, ma pensate che nelle risposte a queste domande si cela il
motivo per cui oggi ci ritroviamo in mezzo ad una pandemia. Come nel caso degli
effetti delle estinzioni, forse non basterebbe un articolo a testa per
chiarirle tutte, ma un’infarinatura generale si può sempre fare: prendete
un’istruzione scolastica fatta di nozionismo inutile, una scarsa
abitudine alla lettura e finanziamenti pilotati verso
altri interessi, e otterrete una cultura ambientale che rasenta
lo zero; prendete l’80% del PIL mondiale, concentratelo nelle
mani di pochi Paesi, poche industrie e poche famiglie,
e otterrete povertà, ignoranza e malcontento
che alimentano superstizioni, terrorismo e estremismi di ogni sorta; e infine
aggiungeteci una pessima cultura psicologica, e dei media che
spingono verso modelli sociali fatti di apparenza e consumismo, e
otterrete persone che identificano sé stesse con gli oggetti che
possiedono piuttosto che con le persone che sono. Queste sono le vere
“radici del problema”, e finché agiremo sul resto sarà solo un tampone.
C’è chi dice che bisogna andare
dagli indigeni a insegnargli come essere sostenibili,
prima che la loro caccia porti all’estinzione di qualche “specie chiave”.
Un’affermazione di un’arroganza senza precedenti, visto che se
quella specie è a rischio la colpa è del resto del mondo. La verità è che gli
indigeni sanno essere ecologici e sostenibili da migliaia di anni,
senza nemmeno sapere che nel vocabolario esistono parole per definirlo. Forse
sono loro che devono insegnare qualcosa a noi.
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Fonti: