giovedì 24 ottobre 2019

La torta dell'Artico

Il clima cambia, i governi promettono e intanto il Polo Nord viene spartito col righello 



Da una parte abbiamo una ragazzina di nome Greta Thunberg che, con schiette e semplici parole, rinfaccia ai maggiori governi mondiali di continuare a speculare sul futuro di pianeta e persone. Da un’altra, manifestazioni “fridays for future” che fioccano come funghi in autunno e fanno numeri da concerti. Da un’altra ancora, la “Coop” lancia uno spot pubblicitario che sembra una dichiarazione di guerra a risorse fossili, agricoltura intensiva e scioglimento dei ghiacci. E poi l’espressione “plastic free” che, dopo “mission”, sale in testa alle classifiche degli inglesismi più usati di sempre.

Siamo, finalmente, di fronte a una “rivoluzione ambientale”? O è l’ennesimo fenomeno mediatico? Forse entrambe, anche se spero più nella prima. Quel che è certo, però, è che mentre accolgono Greta a braccia aperte e dicono “Brava, che sia di esempio per tutti!”, i maggiori governi della Terra si contendono l’Artico come l’ultima fetta di torta di compleanno.

Incredibile, dite? Non è possibile? Lo dicevo anche io. Poi mi sono informato meglio e ho scoperto che è davvero così.

Ma cos’ha l’Artico di tanto “gustoso” da scatenare una contesa internazionale?


L’Artico significa tante cose per molti paesi. Tanto per cominciare, risorse energetiche da capogiro: secondo la USGS (United States Geological Survey), sepolti sotto i ghiacciai si troverebbero 1/8 delle risorse di petrolio e 1/3 di quelle di gas naturale del pianeta intero. Solo la Penisola dello Yamal (Russia), si stima che nasconda i giacimenti di gas naturale più grandi del mondo, mentre il permafrost, nel suo complesso, dovrebbe stoccare circa 1600 miliardi di tonnellate di carbonio, per lo più sotto forma di metano. Senza dimenticare giacimenti di oro, diamanti e REE (Terre Rare).

Secondo, grazie al ritiro dei ghiacci, significa anche l’apertura di nuove rotte commerciali, nonché l’accesso a nuove risorse ittiche. Stando alle stime, se il cambiamento del clima andrà avanti di questo passo, entro il 2050 il Mare di Bering dovrebbe rimanere libero dai ghiacci per gran parte dell’anno, e lo stesso si potrebbe dire per il Passaggio a Nord Ovest (nord del Canada) e per la Rotta del Mare del Nord (nord della Siberia).

Rotta della Venta Maersk (da "National Geographic",
settembre 2019)
Dite che l’eventualità delle nuove rotte sia ancora lontana? Io non direi. Già nel settembre 2018, la nave danese Venta Maersk ha viaggiato da Busan (Corea del Sud) fino a Bremerhaven (Germania) tramite la Rotta del Mare del Nord; è stato necessario un piccolo intervento di una rompighiaccio russa, ma anche così, paragonato allo stesso viaggio passando per il Canale di Suez, questo è durato 10 giorni e circa 7500 km in meno. Sempre l’anno scorso, poi, la Cina ha già cominciato a parlare di “Via della Seta Polare”, mentre gli Stati Uniti, nella persona del Segretario Mike Pompeo, hanno parlato di un “Canale di Suez del 21° secolo” al Consiglio Artico del 2019.

Gli invitati alla festa (e gli imbucati)


Ma chi è che si contende il Nord del mondo? Principalmente si parla di 8 paesi, quelli che compongono il Consiglio Artico, cioè Russia, USA, Canada, Norvegia, Finlandia, Svezia e Danimarca (ci sarebbe anche l’Islanda, ma non è in possesso di navi rompighiaccio).

Ma ce ne sono anche altri, paesi non artici, classificati come “osservatori”, fra cui Francia, Germania, Italia, Regno Unito, Corea del Sud, Giappone, India, e soprattutto Cina, che vede un’alternativa al carbone nel gas naturale e un gran vantaggio nel commercio con l’occidente grazie alle nuove rotte.

I motivi dei battibecchi


D’accordo, ci sono tante risorse e tanti paesi interessati. Ma la contesa da dove nasce? Molto semplice, e a tratti anche tragicomico.

Piattaforma Continentale
Ogni paese del mondo che si affaccia sul mare ha la sua ZEE (Zona Economica Esclusiva), cioè una fascia di 200 miglia nautiche dalla linea di costa che il paese può considerare propria, comprese le risorse che stanno sopra e sotto il fondale; ciò che va oltre sono acque internazionali. Se però i dati geologici dovessero dimostrare che la piattaforma continentale si estende oltre la ZEE, allora ecco che quel dato Stato ottiene diritti anche sulle risorse che stanno oltre la ZEE, fino al limite della piattaforma.

Ora, il punto è che i ghiacci dell’Artico sono lì dall’ultima Epoca Glaciale, cosa che, capirete bene, non ha mai reso possibile o conveniente né il commercio navale, né operazioni di estrazione. E soprattutto, proprio per questo, non ha mai scatenato chissà quali dibattiti in merito a “Di chi è qui?” e “Di chi è qua?”.

Adesso che questi ghiacci si stanno sciogliendo, però, e viste le risorse che promettono, ecco che queste domande se le pongono in molti, e si appellano al CLCS (Commissione per i Limiti di Piattaforma Continentale) per fare indagini e stabilire i nuovi confini. Alcune di queste indagini devono ancora partire, altre sono in corso, su nessuna si è ancora detta l’ultima parola, ma il punto è che già adesso ne vengono fuori una miriade di sovrapposizioni.

E questo come mai? Perché quelli della CLCS sono degli imbranati a fare le indagini? No, semplicemente per due motivi: uno, perché condurre indagini di questo tipo non è una passeggiata, né in condizioni “normali”, né tantomeno in condizioni come quelle dell’Artico; due, perché le piattaforme continentali se ne strabattono di concetti artificiali come i confini: siamo noi che ci danniamo a volerli stabilire perché non si è ancora superato il concetto di "proprietà privata", le rocce delle piattaforme se ne stanno lì, mescolate o meno, dove la geologia le ha piazzate. 

Tutti con le mani che prudono


Alla luce di tutto ciò, siccome dopo 2 milioni di anni di evoluzione e due Guerre Mondiali si pensa che “gli schiaffi” siano ancora il metodo migliore per risolvere i problemi, tutti questi Stati stanno rafforzando eserciti, spostando flotte e conducendo esercitazioni militari.

Gli USA hanno annunciato a maggio l’istituzione di un Ufficio Militare per gli Affari Artici e l’invio di un contingente stabile in Groenlandia. Nel 2018, la Russia ha rafforzato le posizioni dell’esercito sulla Penisola di Kola, e ha mobilitato bombardieri a lungo raggio nella base di Murmansk e forze strategiche nucleari dalle basi nella Siberia orientale ai sottomarini nei mari del Nord. La NATO ha imbastito lo scorso anno un’esercitazione di 45.000 soldati perché teme un’uscita in stile “Crimea 2.0” da parte della Russia. E c’è chi pensa, USA primi fra tutti, che tutto questo interesse della Cina nei confronti dell’Artico sia un preambolo a una presenza militare costante fatta di sottomarini.

E allora? Seconda Guerra Fredda?


Molti propendono per il no, e per vari motivi: 1) nonostante tutto, le condizioni naturali dell’Artico sono ancora piuttosto difficili, per cui compiti come esplorazioni per il petrolio o il controllo di traffico navale possono essere eseguiti solo con equipaggiamento militare; 2) le rotte commerciali sono sì più corte, ma per adesso ancora ardue da praticare; 3) per USA e Canada i maggiori giacimenti si trovano in territori non artici, come in Alberta o nel Golfo del Messico; 4) le regole della UNCLOS (Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare) dovrebbero assegnare alla Russia zone piuttosto ampie; 5) viste le condizioni climatiche pur sempre estreme dell’Artico, una cooperazione fra Stati per attingere alle sue risorse è imprescindibile, basti pensare all’impianto russo Yamal LNG che non sarebbe mai esistito senza i finanziamenti cinesi e francesi.

In sostanza, è come se ci fosse un atteggiamento di questo tipo: Tizio pensa che Caio e Sempronio passino alle maniere forti, Caio e Sempronio pensano la stessa cosa, e così, se anche nessuno avesse realmente intenzione di usarle, il risultato è che tutti dispiegano forze armate “perché non si sa mai”. Nulla che non si sia già visto negli ultimi 10.000 anni, insomma.

Il colmo dei colmi


Sinceramente, però, quel che mi sorprende di più non è la possibilità di qualche conflitto armato, né tantomeno quella di un grande conflitto. È ben altro.

Impianto Yamal LNG
Per esempio, il fatto che le indagini condotte dalla CLCS siano già costate agli USA 89 milioni di dollari (e non sono ancora finite). Il fatto che un impianto come quello di Yamal LNG, usato per stoccare gas naturale liquefatto, non sia ancora finito e già sia costato 27 miliardi di dollari. Il fatto che la Cina, fra il 2012 e il 2017, abbia già investito nell’Artico quasi 90 miliardi di dollari. Il fatto che 2,7 miliardi saranno quelli che la Russia intende spendere da qui al 2025 per potenziare le infrastrutture dell’Artico. Il fatto che gli USA abbiano dato l’ok per 19 concessioni per l’estrazione offshore su un’area di 4 milioni di km2, precedentemente tutelata dal governo Obama.

E non pensiate che l’Italia sia da meno. Due anni fa, il governo Trump ha approvato i permessi richiesti da ENI per compiere perforazioni esplorative nel Mare di Beaufort, in Alaska, permessi per scavare pozzi di 10km, in un’area in cui profondità e acque gelide rendono le operazioni costose e pericolose, e in cui, per tutto questo, Shell aveva già rinunciato a estrarre nel 2015. Per capirci, queste intenzioni sono quelle della stessa azienda che in tv manda degli spot con massime filosofiche tipo “Solo cambiando il modo di vedere le cose, le cose che vediamo cominceranno a cambiare”, e che intanto chiude il 2018 con un tasso di produzione di 1.9 milioni di barili/giorno, 5% più alto dell’anno prima e record storico di tutta l’azienda.

In pratica, mentre dappertutto si parla di cambiamento climatico e di che disastri comporterebbe lo scioglimento dell’Artico, l’atteggiamento di governi e multinazionali non è quello di agire per impedirlo, anzi, è quello di comportarsi come se fosse scontato che sarà così, o perfino come se si volesse accelerare. Pensate, addirittura, che sono in progetto delle navi per crociere polari da varare entro il 2023.

Ma i nostri sforzi non sono inutili!


Lo capisco, di fronte a protagonisti, azioni e numeri come questi viene spontaneo dire “Ma vaffanculo! Che la faccio a fare la raccolta differenziata!?”, a tratti viene da dirlo anche a me. Ma io credo nella forza delle idee, della comunicazione, del numero. In fondo, se da sempre esiste la censura, un motivo c’è, e cioè che “occhio non vede, cuore non duole”, e io aggiungerei “mano non muove”.

Quel che voglio dire, insomma, è che se ancora pensate che agire solo sulla classe politica sia il modo migliore di risolvere le cose, vi sbagliate di grosso: come per tanti altri problemi (per non dire tutti), qui non è una questione di questo o quel partito al governo, è una questione di consapevolezza. Un terreno lo potete rinvangare quanto vi pare, ma se gli mancano i nutrienti è inutile, meglio passare a uno più fertile.

Ecco, la comunicazione fa esattamente questo: fertilizza il terreno, crea consapevolezza. Quel che serve davvero non è cambiare i partiti ai governi, ma creare consapevolezza nel resto delle persone su veri problemi e vere soluzioni. Si parla tanto di “gruppi di pressione” che dirottano i governi dove più vogliono; ecco, forti di questa consapevolezza, dobbiamo essere noi questi “gruppi di pressione”.

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