sabato 15 febbraio 2020

Fast food? Not good!

Il "cibo veloce" è il killer della salute pubblica, del lavoro e dell'ambiente


Credo di aver messo piede in dei fast food appena due volte in tutta la vita, molti anni fa, quando ancora non avevo la minima idea di che cosa fossero davvero. E l’ho fatto nonostante le opinioni contrastanti che ho sempre avuto intorno: chi sconsigliava di andarci perché “vendono roba poco buona” o “perché fa male”; chi lo consigliava assolutamente “perché il cibo è buonissimo” e perché “è più controllato di quello che vendono nei supermercati”; e chi si schierava un po' nel mezzo, additando certi marchi come la schifezza più assoluta, e certi altri come garanzia di qualità.

In tutto questo, pur non avendo informazioni precise, il mio semplice intuito mi ha sempre suggerito di evitarli come la peste, mi ha sempre sussurrato che in tutto quel cibo super saporito, colante di grasso e pronto in pochi minuti ci fosse qualcosa di davvero innaturale, e così gli ho sempre dato ascolto. Ho fatto bene? Oggi lo posso dire: eccome se ho fatto bene!

Additivi artificiali usati per produrre la plastica, malattie che vanno dall’obesità all’infarto, maltrattamento di animali. Passando anche per pubblicità ingannevoli, sfruttamento del lavoro e inquinamento. Fino ad arrivare perfino a devastazione di habitat, estinzioni di specie e sfollamento di popolazioni. C’è tutto questo e ben altro dietro alle due semplici parole “fast food”. La questione è ampia e fatta di molte sfaccettature, ma seguitela e non ve ne pentirete: scoprirete perché mangiare o non mangiare un hamburger può fare la differenza fra distruggere la nostra società oppure salvarla

Storia dei fast food, i figli (illegittimi) dell’età industriale


Quando si dice “fast food” immediatamente si dice anche “McDonald’s” e “Stati Uniti”, ma in realtà la storia di questo “parto” inizia in Inghilterra nella seconda metà del XIX secolo: siamo nella Seconda Rivoluzione Industriale, già esistono i prototipi di quella che sarà la catena di montaggio, il che significa che appaiono le prime grandi industrie a “produzione di massa”; inizia quindi l’urbanizzazione, e flotte di persone dalle campagne cominciano a riversarsi nelle città a infoltire i ranghi di quella che sarà la “classe operaia”, costretta a turni di lavoro disumani da 12 ore o più in queste nuovissime fabbriche.

In Inghilterra in particolare si sviluppa la pesca a strascico, come anche le nuove ferrovie che collegano i porti alle principali città industriali, cosa che permette il trasporto rapido di pescato ancora fresco. È in tutto questo contesto che, intorno al 1860, a Londra, apre il primo ristorante di “fish and chips”, primo abbozzo di quel che sarà il fast food propriamente detto: pesce e patatine fritti, pronti in brevissimo tempo, economici e serviti in un cartoccio di carta di giornale; l’ideale per operai costretti a ritmi serrati e a brevissime pause pranzo. Non per niente già nel 1910 si contano 25.000 fish and chips in tutto il Regno Unito, cifra che sale a 35.000 negli anni ’30.

Nel frattempo, nel resto dei paesi industrializzati, se anche non nasce il fish and chips, di sicuro nasce la stessa “filosofia” di creare un tipo di cucina che sia rapida ed economica, proprio per soddisfare la frenesia della nuova vita industriale. Così compaiono le prime tavole calde di fronte alle fabbriche, i primi venditori ambulanti di street food, e nel 1921, nella città americana di Wichita, in Kansas, apre “White Castle”, considerato il primo fast food della storia: cottura rapida, porzioni abbondanti, bassi costi e prima catena di hamburger, venduti per soli $ 0,5 l’uno.

Logo "McDonald's"
Ma la rivoluzione del settore arriva nel 1940, quando a San Bernardino, in California, i due fratelli Richard e Maurice aprono il primo “McDonald’s”: la loro “geniale” intuizione sta nell’introdurre lo “Speedee Service System”, una sorta di catena di montaggio in versione culinaria che permette di servire in pochissimi minuti non solo hamburger, ma qualsiasi piatto proposto dal loro menù. “McDonald’s può diventare la nuova Chiesa Americana […]. E non è aperto solo la domenica”, recita Ray Kroc nel film “The Founder”, e purtroppo sarà proprio così: sull’idea di questo imprenditore, i fratelli McDonald danno il via a una catena di ristoranti che, nel 1959, a Chicago, conta già il suo centesimo locale negli Stati Uniti; nel 1967 approda poi in Canada, nel 1971 in Giappone, nei primi anni ’70 in Europa e nel 1986 in Italia, a Roma. Ristoranti del tipo “drive-through” esistono in America già dagli anni ’30, ma è di sicuro “McDonald’s” a farli spopolare, aprendo il primo nel 1975 a Sierra Vista, Arizona, per poi passare in Europa nel 1985, dove da allora sono conosciuti come “McDrive”.

Sulla scia di “McDonald’s”, nel corso del tempo molte altre catene di fast food fanno la loro comparsa, come “KFC” (1952, USA), “Burger King” (1954, USA), “Pizza Hut” (1958, USA), “Taco Bell” (1962, USA), “Subway” (1965, USA), “Wendy’s” (1968, USA), “Quick” (1971, Belgio), o “Autogrill” (1976, Italia). Nascono anche “varianti regionali”, come i take-away cinesi, le kebab houses medio-orientali, o i già citati fish and chips inglesi. Tutti marchi che spopolano in decine o centinaia di nazioni con migliaia di punti vendita; solamente “McDonald’s” è diffuso in 120 paesi e conta più di 37.000 “ristoranti”.

Quanto al successo, se vi dicono che l’industria alimentare è fra le più influenti del mondo potete prenderlo sulla parola, perché soltanto il settore fast food, globalmente, ha raccolto introiti per circa $ 570 miliardi soltanto nel 2018; “McDonald’s” da solo ha chiuso il 2015 con un fatturato di circa $ 25 miliardi. Ma per renderci conto ancora meglio della portata e dell’influenza di queste industrie, basta pensare che lo storico settimanale inglese “The Economist”, nel 1986, ha coniato il “Big Mac Index”, cioè un indice economico del potere d’acquisto delle valute che si basa…sapete su cosa? Sul prezzo di un panino “Big Mac” nei “McDonald’s” di un certo paese.

Mangiare nei fast food fa male o no?


Due conti su nutrienti e calorie


Partiamo da questo: che cosa si mangia tipicamente in un fast food qualsiasi? Per le portate principali, di solito di parla di sandwich, hamburger, insalata di pollo, patatine fritte, crocchette, cotolette, anelli di cipolla, o tacos; come condimento, salse di ogni tipo come ketchup, maionese, sciroppo di mais, senape, mostarda o salsa barbecue; fra i dolci, croissant, frappè, gelato, muffin, torta, biscotti, o cioccolata calda; per le bevande, “Coca-Cola”, “Fanta”, “Sprite”, “Monster”, caffè, cappuccino, o latte. In pratica, il Circo di Monte Carlo dei grassi, del sale, degli zuccheri e delle calorie, e il funerale di vitamine, fibre e sali minerali.
"Box Meal Colonel's", KFC

Fate conto che l’apporto di nutrienti giornaliero consigliato per un adulto medio è di circa 2000kcal, max 60-70g di zuccheri semplici, 60-70g proteine, max 5g sale (cioè 2g/2000mg di sodio), 300g carboidrati, 30g fibre e 60-70g grassi (di cui max 20g di grassi saturi, max 5g di grassi insaturi). Detto questo, se andiamo in un “KFC” e prendiamo un “Box Meal Colonel’s”, siamo già a 1336kcal, 55g proteine, 155g carboidrati, 56g grassi e 6g sale; in un “McDonald’s” con un “Big Mac”, una porzione di patatine e una “Sprite”, siamo a 875kcal, 47g grassi, 11,5g grassi saturi, 91g carboidrati, 2.83g sale, 30.9g proteine, 7.10g fibre, 17.5g zuccheri; in un “Burger King” con un “Whopper”, una porzione di patatine e una “Coca-Cola”, siamo a 1054.2 kcal, 123.9g carboidrati, 53g zuccheri, 46.3g grassi, 13.8g grassi saturi, 5.6g fibre, 3.2g sale e 1.3g sodio. Insomma, non importa avere un dottorato in matematica per capire che basterebbe una porzione più abbondante, un bis di una cosa già presa, o un altro prodotto, e si potrebbe digiunare per il resto della giornata.

E la cosa simpatica è che, nel corso degli anni, questo trionfo di "nutrienti" non è affatto cambiato, anzi, è peggiorato: uno studio del 2019 della "Tuft University" di Boston ha analizzato i menù proposti dalle dieci maggiori catene di fast food nel 1986, nel 1991 e nel 2016; quel che è venuto fuori è che, in 30 anni, sono aumentati sia le calorie (186 kcal in più nei dolci, 90 kal nei piatti principali), sia il sodio (0.276g in più), sia le porzioni (39g in più nei piatti principali, 72g nei dolci).

Testimonianze, dichiarazioni e indagini ufficiali


Fortunatamente l'altruismo è duro a morire, e così non sono mancati dipendenti o ex dipendenti che, a un certo punto, hanno deciso di svelare al mondo il “dietro le quinte” di alcuni di questi “ristoranti”: sul social network “Reddit”, testimonianze parlano di “chicken nuggets” di “McDonald’s” dimenticate per sbaglio e mai gettate che, in pochi giorni, si sono sciolte in una poltiglia liquida assolutamente indefinibile; salsa chili di “Wendy’s” preparata con pezzetti di hamburger rimasti troppo a lungo sulla griglia e quindi considerati inservibili; cibi vegetariani preparati o cotti con gli stessi utensili o lo stesso olio di frittura usati per la carne; sempre da “McDonald’s”, cetrioli e senape capaci di lasciare macchie indelebili sui tavolini; una polvere biancastra messa in frigo per una notte con un po' d’acqua, e magicamente trasformata in anelli di cipolla il giorno dopo.

Si tratta solo di fake news? Di dipendenti insoddisfatti che hanno deciso di vendicarsi con un po' di diffamazione? In certi casi può essere, ma nel complesso non credo. Credo piuttosto che si tratti di persone che, a un certo punto, non ce l’hanno più fatta a sopportare le condizioni di lavoro inumane (come spiegherò più in là), nonché il senso di colpa di vendere certa roba ad altre persone, e che quindi hanno avuto il coraggio di dire la veritàSe poi non volete credere a loro, allora credere alle indagini e alle dichiarazioni ufficiali.

Logo "Subway"
Nel dicembre 2012, si scopre che in alcuni punti vendita KFC in Cina si fa uso di carne di polli allevati con ormoni della crescita e eccessivo uso di antibiotici. Nel dicembre 2013, “McDonald’s” pubblica sul sito “McResources” un avvertimento per i suoi dipendenti: non consumare fast food, perché l’eccesso di calorie, grassi insaturi, zucchero e sale può portare all’obesità. Intenzionale o no, dopo che la notizia fra il giro del pianeta, il sito viene chiuso nel giro di pochi giorni. Nel luglio 2014, viene a galla che la “Shangai Husi Food”, sussidiaria giapponese dell’azienda americana “OSI Group”, ricicla carne scaduta, mescolandola con quella fresca, per poi rivenderla a varie catene di fast food in Cina e Giappone. Nell’aprile 2014, “Greenpeace” rende noto che “McDonald’s”, nonostante gli impegni presi nel 2001, fa ancora uso di mangime OGM per l’allevamento dei polli di cui si rifornisce. Ancora nel 2014, dopo una petizione lanciata dall’attivista americana Vani Hari sul suo blog “Food Babe”, “Subway” annuncia l’intenzione di eliminare dal suo pane l’azodicarbonamide, o E927, un additivo illegale in Europa ma non ancora in USA che è usato regolarmente anche da altre catene: serve per rendere il pane più morbido ed elastico, ma è anche usato nell’industria della plastica per realizzare tappetini da yoga e scarpe, e infatti lo si ritiene sostanza portatrice di asma e cancerogena. Nel marzo 2015, “McDonald’s” annuncia che, nell’arco di due anni, smetterà di fare uso di polli trattati con antibiotici e, dalla fine del 2015, anche di latte di mucche allevate con l’ormone della crescita “rbST”. Nell’agosto 2015, è di nuovo Vani Hari a lanciare una petizione contro “Subway” per l’utilizzo di pollo trattato con antibiotici; la catena promette allora di cessare il suo utilizzo entro la fine del 2016, entro 2-3 anni per quanto riguarda il tacchino e entro il 2025 per manzo e maiale. Nel 2016, “McDonald’s” annuncia di aver eliminato antibiotici dai suoi polli e conservanti da olio di cottura, polpette di maiale, uova e “chicken nuggets”. Nel febbraio 2017, pollo di cinque catene di fast food viene sottoposto a test del DNA: ne viene fuori che in un quarto di essi il DNA risulta effettivamente di pollo per l’84-89%, nel pollo di “Subway” appena per il 43-54%; il resto è per lo più soia…o anche altro?

Lo chiedo perché il caso più eclatante di tutti scoppia già nel 2011, quando il noto chef Jamie Oliver, in una puntata del suo programma, dimostra come gli hamburger industriali siano in buona parte costituiti da quel che è stato battezzato “pink slime”, cioè “melma rosa”: un additivo che, insieme ad altri scarti di carne (e ad ammoniaca per evitare i batteri), viene usato per aumentare peso e volume (e dunque guadagno) della carne macinata, poi usata per hamburger, wurstel, cotolette, salsicce, “chicken nuggets”, ecc. Tutta carne che, tra l’altro, proviene da vacche da latte a fine “carriera” di 4-6 anni, che hanno partorito già diverse volte, la cui “ciccia” è quindi legnosa e costa all’ingrosso solo 1 euro/kg, contro i 2-4 euro/kg di quella di manzo o vitello (il che significa risparmio per le catene di fast food). E attenzione, perché questo pink slime è solo uno dei tanti “ingredienti” con cui di solito sono trattate queste carni, oltre a conservanti, coloranti, esaltatori di sapidità, aromi e compagnia bella; tutta roba che non compare in etichetta se non con diciture volutamente poco chiare come “carne separata meccanicamente”.

Forse apparirò malfidato, ma alla luce di tutta questa merda due domande me le faccio: quelli che hanno dichiarato di aver apportato “miglioramenti” lo hanno fatto sul serio, in tutti i punti vendita di tutti i paesi? Se non ci fossero state queste indagini o petizioni, li avrebbero mai apportati? E anche ammesso tutto questo, che dire di quelli che i miglioramenti li promettono? È come dire che da qui a quando lo faranno continueranno ad avvelenare tutta la gente che mangia da loro.

I metodi di preparazione del cibo non sono migliori degli ingredienti


Il solo fatto che grandi quantità di cibo possano essere pronte in pochi minuti dall’ordinazione dovrebbe farci riflettere. Certo, siamo pur sempre in un ristorante, dove le cucine e il personale non sono di sicuro quelli che abbiamo in casa, ma resta il fatto che i tempi di attesa sono davvero un battito di ciglia rispetto a quelli di un vero ristorante. E non c’è proprio un accidente di cui andar fieri.

Deep frying

Gran parte del cibo viene preparata, precotta e prelavata in un’industria centrale, che poi provvede a distribuirla ogni giorno a tutti i punti vendita. Cose come gli hamburger vengono cotte in gran numero contemporaneamente su una grande piastra, dopodiché si passa al “dressing”, che consiste dell’assemblare pane, insalata, hamburger, salse e quant’altro per creare il vero e proprio panino. Cibi fritti come patatine vengono cotti in “deep frying” (frittura profonda), cioè vengono ricoperti di pastella, farina o pangrattato e poi cotti in vasche di olio bollente a 177-191°C. Se non sono già confezionate, le bibite sgorgano da un rubinetto sempre disponibile.

Tutto ciò implica che la carne viene surgelata e, come detto prima, le vengono aggiunti anche degli aromi (il che spiega come mai ha lo stesso identico sapore in ogni punto vendita del mondo). Cotture rapide ad altra temperatura come quella alla griglia, alla piastra, o in frittura, portano spesso alla carbonizzazione di grassi, proteine, carboidrati, glicerolo presente nei grassi, il che produce sostanze come gli IPA (idrocarburi policiclici aromatici), acroleina, formaldeide e acrilammide, tutte cancerogene e che non finiscono solo nel cibo, ma anche nell’aria, mettendo quindi a rischio sia consumatori che operatori. Con la “frittura profonda”, la degradazione dei grassi porta a una perdita nei valori nutrizionali dei cibi, senza contare che questi, o come minimo la pastella che li ricopre, assorbono gran quantità di grassi saturi e grassi trans dall’olio in cui vengono cotti. 

Gli effetti sulla salute


Dopo aver visto gli effetti che hanno anche soltanto i metodi di cottura, il vostro intuito dovrebbe avervi già fatto capire che anche gli ingredienti, naturali o artificiali che siano, tanto salutari non sono.

Già nel 2008, uno studio condotto dall’Università Svedese Linköping su 18 persone ha rivelato questo: appena un mese di dieta basata su fast food, e viene rilevato un aumento dell’enzima ALT, indice di un deterioramento del fegato che, di solito, si riscontra in chi fa elevato uso di alcool. In alcune persone, si riscontra anche un’elevata percentuale di grasso nelle cellule del fegato, cosa che è conseguenza di una resistenza all’insulina e causa di diabete e malattie cardiovascolari. E non solo: queste persone, in media, sono ingrassate di 6.5kg, una perfino di 12kg nell’arco di due settimane.

 Sulla rivista specializzata “Rhinology”, nel giugno 2013, appare uno studio del Dipartimento di otorinolaringoiatria della Fundacìon Santa Fe di Bogotà, Colombia: 3256 bambini fra 6 e 7 anni e 3830 adolescenti fra 13 e 14 anni, sottoposti a test, fanno rilevare sintomi di asma e dermatite atopica; la causa, secondo i ricercatori, un elevato consumo di fast food o altro cibo spazzatura (e quindi di grassi e zuccheri semplici) unito a un basso consumo di frutta e verdura (e quindi vitamine e sali minerali). Cosa si intende per “elevato consumo”? Già 3 volte a settimana.

I vostri figli stanno raccogliendo un po' di brutti voti a scuola? Voi stessi avere un calo di rendimento? Le cause possono essere tante, ma se c’è anche una certa abitudine a mangiare fast food, le due cose potrebbero essere collegate. Sulla rivista “Clinical Pediatrics”, l’Ohio State University pubblica una ricerca nel 2014 condotta su 8544 scolari di 5^ elementare e 3^ media: bambini abituati a frequentare fast food tre volte a settimana o più, ottengono risultati fino al 20% inferiori in matematica, scienze e lettura; e la causa è di nuovo l’eccesso di grassi e zucchero e la carenza di ferro.

Ben 8877 persone, nel 2016, partecipano ad una ricerca della George Washington University in cui forniscono campioni di loro urina per essere analizzati. Nelle urine di coloro che hanno mangiato in un fast food appena 24 ore prima, vengono trovate percentuali di ftalati DEHP e DINP più alte del 23.8% e del 40% rispetto agli altri. Cosa sono gli ftalati? Sono composti che si possono trovare in certi cibi (non biologici) come grano, carne o cereali, secondo gli autori dello studio, oppure nelle pellicole di plastica delle confezioni dei cibi. E non sono per nulla un toccasana, visto che possono danneggiare il sistema riproduttivo e provocare infertilità.

E dulcis in fundo, mangiando fast food anche il sistema immunitario non ci ringrazia. Un team di scienziati internazionale, nel 2018, pubblica uno studio sulla rivista “Cell”: per un mese sottopongono dei topi ad una dieta “occidentale”, cioè ricca di grassi e zuccheri e povera di fibre, e questi sviluppano una forte risposta infiammatoria; per un altro mese passano invece a una dieta a base di cereali e così l’infiammazione sparisce, ma la riprogrammazione genetica delle cellule immunitarie no. In pratica, dopo la forte infezione, il loro sistema immunitario rimane in una sorta di “stato di allerta”, con il risultato che reagisce con risposte infiammatorie molto forti anche di fronte a piccoli stimoli futuri. Detto così può sembrare un bene, ma non lo è per nulla, perché queste risposte violente possono accelerare lo sviluppo di malattie cardiovascolari e diabete di tipo 2, e allora ictus e infarto sono fra le possibili conseguenze.

Per ricapitolare, quindi, mangiare frequentemente fast food significa obesità, ipercolesterolemia, iperglicemia, aumento di trigliceridi, diabete, ipertensione, asma, dermatite atopica, danni allo sviluppo cognitivo. E questo per rimanere nelle ipotesi migliori. Non per nulla nel 2014 l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) pubblica uno studio con cui mette in chiaro le cose: le abitudini alimentari promosse da certi fast food sono da considerarsi fra le principali cause della crisi di obesità che interessa alcuni paesi. E i fast food hanno fatto tesoro della lezione? Non si può dire che non ci abbiano provato, alcuni hanno introdotto delle alternative più “salutari nei loro menù già in anni precedenti. Ma non si può nemmeno dire che abbiano fatto la differenza: nel 2012, la “Australian Health Promotion Association” conduce uno studio su ben 20 fast food australiani, e ne viene fuori che, nonostante le alternative più salutari, appena l’1% degli acquisiti osservati va a parare su queste alternative. Come mai? E qui, infatti, arriviamo alla prossima questione.

Se fanno così male, perché tanta gente continua ad andare nei fast food?


DISINFORMAZIONE. Parliamoci chiaro: se uno è consapevole anche soltanto delle cose che ho detto fino ad ora (e a maggior ragione di quelle che dirò), in un fast food non mette piede nemmeno una volta in vita sua. Per cui della disinformazione c’è, e se c'è le cause possono essere tante, per esempio delle spiacevoli tecniche di contro-marketing: nel 2015, in un’intervista al “Corriere della Sera”, l’amministratore delegato di “McDonald’s – Italia” Roberto Masi dichiara che la carne dei loro hamburger è identica a quella venduta in ristoranti e supermercati. Cosa che non è per nulla vera, come ho detto poco sopra: ristoranti e supermercati usano il posteriore dell’animale, mentre “McDonald’s” usa l’anteriore, meno pregiato e quindi con scarso valore commerciale. Oppure ancora, qualche anno fa, nella app per smartphone l’industria della “M gialla” dichiarava che “Un Big Mac ha quasi la metà delle calorie di una pizza margherita”; in realtà un “Big Mac” ne ha 510, e una pizza ne ha mediamente 750 (ed è un pasto completo ed equilibrato), non 1000 come vorrebbe far credere questo messaggio.

CONFORMISMO. Se si è abituati a seguire qualsiasi moda del momento anche in fatto di vestiti o musica preferita, non ci vuole nulla a seguirne una in più fatta di “ristoranti” da frequentare. E se anche non c’è una moda generale, basta che ce ne sia una fra i propri parenti, i propri colleghi o i propri amici, e in molti, pur di non essere da meno, si adeguano a loro.

CUCINA VELOCE ed ECONOMICA. Un “Big Mac menù” costa € 6.50 e ti viene servito in pochi minuti, perciò è chiaro che sia l’ideale per giovani studenti, per chi non ha un servizio mensa e per chi “va di fretta. C’è di mezzo anche una questione di “possibilità economiche”? Può darsi, ma per esperienza personale direi di no: delle persone che conoscete che frequentano fast food, quante sono quelle che lo fanno perché non possono “permettersi” altrimenti? Scommetto quasi nessuna. La verità è che ciò che fa più la differenza è la velocità del servizio e l’illusione che un basso prezzo significhi anche convenienza e alta qualità.

IL CIBO IPERCALORICO CREA DIPENDENZA. Un altro motivo è rappresentato dal cibo stesso, incredibilmente gustoso e saporito, tanto che ho perso il conto di quelli che chiedono “Ma come fa a fare male se è così buono?”. Come ho già detto, i cibi serviti nei fast food sono un tripudio di grassi, zuccheri e sale, tutte sostanze che, quando le assumiamo, ne fanno rilasciare molte altre al nostro cervello, come la dopamina, che regala piacere e soddisfazione; senza contare che il sale, causando disidratazione, dà l’impressione di essere ancora affamati, quando in realtà abbiamo semplicemente sete.

E come mai tutto ciò? Come illustrato in un articolo del 2015 su “The New Yorker”, il motivo risiede addirittura nella nostra stessa evoluzione: il nostro cervello si è evoluto nel corso di millenni, in un periodo fatto di scarsità di cibo piuttosto che di abbondanza; in un contesto del genere, cibi molto calorici, e quindi ricchi di zuccheri e grassi, rappresentavano la possibilità di immagazzinare molti nutrienti in un colpo solo, abbastanza per sopravvivere fino alla prossima disponibilità di cibo (che chissà quando sarebbe stata). Oggi non è più così, è vero, ma l’evoluzione richiede tempo: gli umani esistono da centinaia di migliaia di anni, ma la disponibilità continua di cibo esiste solo da qualche secolo, ci vorrà ancora un po' prima che il nostro organismo si adatti. Nel frattempo, sappiate che siamo quindi biologicamente predisposti verso i cibi calorici.

Con questo, allora, cosa voglio dire? Che siamo degli scemi naturalmente predisposti verso ciò che ci fa male? Che le catene di fast food sono a conoscenza di tutto questo e ci marciano sopra per “far cassa”? Il fatto che ne siamo attratti è del tutto naturale: se siamo un po' di malumore, o un po' stressati, cosa ci va di mangiare di più? Un piatto di bietole e una banana, o un pollo arrosto e un gelato? Tutti voi sapete che la risposta è la seconda, e il perché sta appunto nel fatto che quegli alimenti sono ricchi di grassi, zuccheri e sale: li mandiamo giù, e fanno entrare in circolo quella dopamina che ci regala un senso di soddisfazione e appagamento come nessuna frutta e verdura sarà mai capace di fare. Che poi i fast food lo sappiano è possibile, ma il cibo ipercalorico crea dipendenza di per sé, non è stato certo concepito ad hoc da questi “ristoratori”, che al massimo hanno accentuato quel suo contenuto "irresistibile". Nel complesso, quindi, è più facile che la cosa sia al contrario: questo tipo di cibo “va a ruba”, e allora ecco che alcuni “furboni” ci hanno intravisto l’opportunità di fare miliardi, anche se questo significa avvelenare la gente. 

MARKETING INGANNEVOLE. Assolutamente nulla di male nel pubblicizzare i propri prodotti, ma diciamo che dipende da come lo fai, con che intenzioni lo fai, e da che cosa sono questi tuoi “prodotti”.

Spesso i fast food vengono additati di vendere un cibo che non è per nulla uguale a quello che viene pubblicizzato; cosa che è vera, ma sinceramente mi pare il meno: i cibi che compriamo in un supermercato o in un ristorante vi sembrano uguali a come appaiono sulla confezione o sul menù? Quasi mai. L’aspetto veramente riprovevole del marketing che fanno è ben altro.
Emily Ratajkowski e Sara J. Underwood per "Carl's Jr"

La catena “Carl’s Jr”, per esempio, è famosa per i contenuti a sfondo sessuale delle sue pubblicità: Kim Kardashian, Emily Ratajkowski, Paris Hilton, Kate Upton, Sara Jean Underwood, Hannah Ferguson, Charlotte McKinney, Padma Lakshmi. Sono solo alcuni dei nomi di fior fiore di modelle giovani, super sexy e mezze nude che divorano hamburger, patatine o alette di pollo mentre si esibiscono in pose provocanti e numeri da lap dance. Cliccate sui link e giudicate voi: che dite, con questa roba ce lo convinci un adolescente medio a mangiare fast food?

Come si sarà capito, “cibo veloce” e vita sana non sono per nulla sinonimi, eppure non mancano campioni dello sport che si prestano alla sua pubblicità. Nel 2013, l’Università di Yale ha condotto una ricerca curiosa: hanno preso gli atleti più pagati degli Stati Uniti, hanno fatto due conti, ed è venuto fuori che ben 100 di loro hanno rappresentato 512 brand, di cui un quarto legati a fast food, merendine e bevande zuccherate. E parliamo di persone come Peyton Manning, LeBron James, Serena Williams, Shaquille O’Neal. Il messaggio è chiaro: se lo promuovono loro che sono atleti, con quel fisico perfetto, tanto male non può fare, no? E allora me lo mangio anche io, tanto più se voglio fare l’atleta come loro!

In Italia, patria della censura sessuale, di tette e culi al vento te ne puoi permettere fino a un certo punto; per di più stiamo anche parlando della patria del buon cibo, che quindi non è proprio il cliente ideale a cui propinare hamburger e patatine. E allora che si fa? Si può fare come nel 2010, quando il Ministro delle Politiche Agricole Luca Zaia, a Roma, indossa il grembiulino del “McDonald’s” per lanciare la nuova linea di prodotti “McItaly”, 100% “made in Italy”. Oppure come nel 2013, quando “McDonald’s” stipula un accordo con il Consorzio Tutela del Vitellone Bianco dell’Appennino Centrale: 400 capi di razza Chianina IGP da fornire alla “M gialla” per farne degli hamburger “di lusso” (ma solo per 3 settimane, se no costano troppo). Oppure ancora come nel 2015, quando il marchio dei fratelli Richard e Maurice fa proprio i fuochi d’artificio: intervento a “Ballarò” di Roberto Masi e intervista al “Corriere della Sera” in cui si dichiara che “McDonald’s – Italia” fa uso di “made in Italy” per l’85% dei suoi prodotti; Valentina Aprea, assessore al Lavoro e all’Istruzione della Lombardia, invia una lettera ai direttori delle scuole milanesi per invitare gli alunni ad andare a Expo (dove sì, c’era anche “McDonald’s”) e mangiare un “Happy Meal”, perché i ragazzi riceveranno un gelato gratis e gli adulti uno sconto del 50%; si lancia l’iniziativa con cui “McDonald’s”, a partire da marzo, l’ultimo sabato di ogni mese regala un sacchetto di frutta a chi compra un “Happy Meal”. In anni più di recenti, invece, ci si affida a qualche “Lezione di etichetta” o alle raccomandazioni di Joe Bastianich, ma la solfa di tutto ciò è sempre la stessa: presentare quella di “McDonald’s” come una cucina approvata dal governo, attenta alla salute e alla qualità, e che valorizza il “made in Italy”.

Ma la strategia più subdola di tutte è quella mirata ai bambini. Guardate “McDonald’s”, con i colori sgargianti dei suoi locali, l’area giochi, l’”Happy Meal” che regala sempre un giocattolo, e il clown Roland McDonald: secondo voi servono per attirare i camionisti? Per 10 anni, dal 1996 al 2006, la “Disney” è stata suo partener esclusivo, mentre ancora oggi, dal 1985, lo è l’azienda videoludica giapponese “Nintendo”; cartoni animati e videogiochi, insomma: questi qui per chi sono? Per gli impiegati statali? Nel 2015, poi, fa scalpore lo spot pubblicitario con il bambino che chiede un “Happy Meal” in una pizzeria, perché “Tuo figlio non ha dubbi” su cosa sia meglio fra quello e una pizza. Come evidenziato da Marion Nestle, docente dell’Università di New York e tra i massimi esperti mondiali di nutrizione, lo scopo di tutto questo è duplice: conquistare i bambini per arrivare ai genitori, e crearsi dei clienti a vita

Un lavoro senza diritti sul lavoro


Non è questo né il tempo né il luogo in cui discutere sul perché qualcuno possa scegliere di lavorare in un fast food ma, per dirla in poche parole, di sicuro non è una scelta di vita. Quel che conta in questo momento è che gli impiegati ci sono, e che il loro lavoro non ha un accidente a che vedere con diritti del lavoro. E dell’umanità.

Secondo le testimonianze, sembra di stare dentro a una catena di montaggio, in cui ogni singola azione di ogni singolo operaio ha dei tempi da rispettare. “Non fermarsi mai” è il motto da seguire, per cui un addetto alla cassa, se non ci sono clienti, deve assolutamente occuparsi di qualcos’altro con il servizio al tavolo, il controllo rifornimenti, o le pulizie; un addetto alle cucine, invece, deve conoscere la preparazione di ogni singolo prodotto, preoccuparsi delle scadenze, e anche qui di rifornimenti e pulizie. Il tempo di andare in bagno quasi non esiste, e il contatto con le persone è inesistente: l’obbiettivo è vendere il massimo possibile nel minor tempo possibile, per questo le casse sono monitorate da un timer, e per questo succede spesso che un cliente, mentre è ancora in attesa del proprio ordine, viene già scavalcato da quello successivo. Nel 2015, nei “McDonald’s” di 19 città USA, è stato addirittura rilevato che per la carenza di personale, la mancanza di abbigliamento protettivo, la scarsa preparazione e l’eccessiva pressione sugli impiegati, molti di questi hanno riportato degli infortuni, e siccome non c’era nemmeno un adeguato kit di pronto soccorso, i manager li hanno perfino invitati a curare delle ustioni usando mostarda e maionese.

E tutto questo per che cosa? Contratti part-time, con turni nel fine settimana, nei giorni festivi, di notte, con straordinari, e una retribuzione di circa € 800. Non per niente, stando alle stime del 2013 fatte dall’Università di California-Berkeley, il 52% degli impiegati di fast food in America è costretto ad usufruire di almeno un programma di assistenza sociale, cosa che si traduce in un costo di circa $ 7 miliardi all’anno per i contribuenti. Situazioni simili, nello stesso anno, sono state evidenziate dal “The Guardian” in Inghilterra, dove il 90% di impiegati di “McDonald’s” conta su un contratto zero-ore. O anche in Australia, nel 2019, dove il “Fair Work Ombudsman” rileva condizioni di sottopaga in ben 17 punti vendita “Subway”, dove più di $ 81.000 non sono mai stati percepiti (di diritto) da circa 160 impiegati.

Giustamente, negli ultimi anni, non sono mancate proteste e scioperi da parte degli impiegati, che hanno chiesto migliori condizioni e un trattamento economico di almeno 15 $/ora, contro la media di 7.25 $/ora. I risultati? Nel 2014, negli USA, il governo Obama porta il salario minimo a 10.10 $/ora e introduce nuove indennità per 3.81 $/ora; come conseguenza, 4 fast food (di cui 3 “McDonald’s”) nelle basi della Marina Militare chiudono i battenti, il governo viene accusato di danneggiare la qualità della vita dei militari, e 40 parlamentari repubblicani chiedono che alcune attività all’interno delle basi militari, compresi i fast food, vengano esentate da questi provvedimentiMa c’è di peggio: nel 2013, di fronte alle proteste crescenti, il sito “McResources” invita i dipendenti a mangiare con piccoli bocconi alla volta per sentirsi più sazi, ottenere rimborsi per le vacanze prenotate ma non godute, vendere possedimenti online per guadagnare qualcosa, e smettere di lamentarsi, perché l’ormone dello stress sale del 15% dopo dieci minuti di lamentele.

Sapete chi è Steve Easterbrook? È stato l’amministratore delegato di “McDonald’s” dal marzo 2015 al novembre 2019. Ve lo dico perché, mentre gli impiegati sono sottoposti a sfruttamento e perfino a derisione, lui si è messo in tasca più di $ 21 milioni soltanto nel 2017

Andare nei fast food significa distruggere l’ambiente


Eccessiva produzione di rifiuti, emissioni di inquinanti, abusi su animali, accaparramento illegale di terreni, sfratto di popolazioni indigene, deforestazione. È questo che si intende, in poche parole, quando si dice che i fast food alimentano la distruzione dell’ambiente e il cambiamento climatico.

Miglioramenti in proposito ci sono stati, per esempio in fatto di riduzione di imballaggi, o minor consumo di acqua, gas e elettricità. Tanto per dirne una, nel 2014 “Casa Clima” ha assegnato la certificazione di sostenibilità “Nature” a “McDonald’s – Italia” in riferimento al punto vendita di San Giovanni Lupatoto (VR): fra il 2009 e il 2013 è passato da 1.08kg di CO2 emessa per scontrino a 0.51kg e ha ridotto del 53% i consumi energetici. Messi insieme tutti i punti vendita d’Italia, c’è stato un risparmio di 16.5 milioni di litri d’acqua e 600 tonnellate di cellulosa, cosa che equivale a 6 piscine olimpioniche e 1.8 milioni di alberi. A livello globale, fra il 2015 e il 2019 “Subway” ha annunciato che, entro il 2025, passerà ad utilizzare soltanto polli allevati all’aperto; la stessa promessa è stata fatta nel 2015 da molte altre catene, come “McDonald’s”, che nel 2012 ha promesso la stessa cosa anche per quanto riguarda i maiali. Sono promesse che verranno mantenute? Sarà da vedere. Quanto ai miglioramenti, tanto di cappello, ma mi sembrano una goccia nell’oceano rispetto ai problemi esistenti.

Quasi la metà dei rifiuti presenti nella strada della Bay Area di San Francisco derivano da imballaggi di fast food, secondo una ricerca condotta nel 2011 dalla “Clean Water Action”. E quattro anni dopo, la NRDC (Natural Resources Defense Council) e la EPA (Enviromental Protection Agency) non dipingono un quadro migliore, perché rendono noto che gran parte delle catene di fast food non adotta sufficienti politiche di riduzione di imballaggio e di riciclabilità.  

I metodi di cottura di cui ho già parlato, fatti di piastra, griglie e friggitrici, secondo una ricerca del 2010 della “American Chemical Society” emettono grandi quantità di gas inquinanti; tanto per rendere l’idea, ogni 2200 hamburger preparati si producono 25kg di questi gas. Ed è il male minore, perché quello maggiore, come ho già accennato e come chiarirò fra poco, è che gran parte della carne usata nei fast food deriva da allevamenti intensivi, che sono responsabili di oltre la metà delle emissioni globali di gas serra: si parla di circa 32.6 miliardi di tonnellate di CO2 all’anno, secondo uno studio del 2009 del “World Watch Magazine”; in altre parole, per dirla come James Lomax, esperto di sistemi alimentari dell’UNEP (United Nations Environment Programme), se le mucche fossero una nazione sarebbero il terzo più grande produttore di gas serra al mondo (dopo Cina e Stati Uniti). 

E parlare di allevamenti intensivi non significa solo inquinamento, ma anche abusi su animali. “KFC” è accusata da anni di allevare polli con trattamenti crudeli e perfino sadici: documentazioni video e testimonianze raccontano di uccelli tanto stipati da morire soffocati, nutriti e drogati per crescere così tanto che non sono più capaci di muoversi, ali e gambe spezzate per evitare che scappino; in alcuni casi si arriva addirittura a spegnergli sigarette addosso, spruzzargli spray in faccia e buttarli in vasche di acqua bollente mentre sono ancora vivi. Le stesse accuse, nel 2015, sono state lanciate alla compagnia “Tyson Foods”, principale fornitore di pollame di “McDonald’s”, e anche qui le testimonianze video mostrano uccelli a cui viene calpestato il collo, infilati in gabbie anguste e uccisi a colpi di mazza.

Ma la ciliegina su questa torta ce la vogliamo mettere? Per forza, diventa troppo più buona. E allora sappiate che, nel 2006, indagini condotte da “Greenpeace” hanno portato a scoprire che catene come “KFC” e “McDonald’s” (Europa) acquistavano soia da multinazionali americane come “Cargill”, “ADM” (Archer Daniels Midland) e “Bunge”, soia che veniva usata per lo più per nutrire gli animali da allevamento; e sapete da dove veniva questa soia? Da coltivazioni in Brasile che, per essere create, avevano richiesto la distruzione illegale di 60.000-80.000 ettari di foresta pluviale. Sei anni dopo, è ancora “Greenpeace” che analizza carta e imballaggi usati da “KFC” e i risultati sono impietosi: circa il 50% della carta proviene da legno di foresta pluviale indonesiana, deforestata illegalmente dalla multinazionale “APP” (Asia Pulp & Paper). Accuse simili, che comprendono anche l’esproprio di terra a popolazioni indigene, sono state rivolte anche a “McDonald’s” per quel che riguarda le coltivazioni di olio di palma e gli spazi destinati ai pascoli. La sua risposta? La solita promessa di tagliare qualsiasi suo legame con la deforestazione entro il duemila-mai

Loro sono giganti, ma noi siamo milioni


Se siete arrivati a leggere fino a qui, tanto per cominciare vi faccio i miei complimenti, e poi vi assicuro che ne è valsa la pena. Spero di avervi fatto capire che una questione “banale” come quella dei fast food ha invece delle implicazioni davvero enormi, che dietro c’è molto e molto di più del semplice “fa male”, e che ci sono tantissimi buone ragioni per smettere di andarci (o non iniziare nemmeno).

Molte persone, oggi, vivono delle vite a tutta velocità, ma bisogna rendersi conto che la cucina fast food non è una “geniale” soluzione al problema, anzi, è una pessima alimentazione del fenomeno (bello il gioco di parole, eh?). La famosa “vita frenetica” non è un effetto collaterale con cui c’è da imparare a convivere, è una piaga che va risolta, ma le sue soluzioni stanno da ben altra parte, non nell’ingozzarsi. A proposito: vi è mai capitato, a forza di mangiare di fretta, di avere gonfiore in pancia, cali di energia, pessima digestione, o sensazione di avere ancora fame poco tempo dopo? Tutta colpa proprio del mangiare alla svelta: mangiare con calma, masticando per bene il cibo, permette di assorbire meglio i nutrienti (quindi più energie), ingurgitare meno aria (quindi meno gonfiore), digerire meglio (nessun riflusso gastrico), e aumentare il senso di sazietà (non si mangia in eccesso e non si ingrassa). Senza contare che si riduce lo stress, si gusta di più ciò che si mangia (e allora ci si sente ancora più sazi) e si possono anche fare due benedette chiacchiere con qualcuno.

C’è chi potrebbe ribattere che i fast food li frequenta “solo ogni tanto” e che l’importante è “non abusarne”. Vi risponderò in tre punti: 1) se “ogni tanto” significa anche solo 1-2 volte al mese, ma spalmate su 30 anni, non crediate che faccia molta differenza; tra l’altro, dato che il cibo ipercalorico crea dipendenza, è molto facile che uno abituato a mangiare nei fast food poi si abitui a mangiarlo anche a casa, e allora altro che 1-2 volte al mese, si arriva anche a 3-4 volte a settimana. 2) Se dentro al cibo ci sono le schifezze artificiali di cui vi ho parlato, che differenza dovrebbe fare andarci poco o andarci spesso? Più o meno è come dire che bere detersivo per piatti fa male, ma se ne bevi 5ml “ogni tanto” non succede nulla. 3) Al di là dell’aspetto salutare, andare nei fast food significa finanziare tutto il marcio che c’è dietro, per cui no, la soluzione non è “andarci ogni tanto”, la soluzione è “non andarci affatto”. Dite che è conveniente perché costa poco? Fatevi questa domanda: costa poco per chi? La gente ci va per fare il bene del proprio portafogli e non si rende conto che fa il male della propria salute e del resto del pianeta. Ottima strategia.

I fast food, da parte loro, si difendono sempre dicendo che sono i primi a dichiarare le informazioni nutrizionali di quel che vendono, che il marketing è utilizzato da chiunque per pubblicizzare i propri prodotti, per cui se la gente ne abusa è affar suo, d’altra parte “esiste il libero arbitrio”. Cose tutte vere, se non fosse per due piccoli dettagli: qui non si pubblicizza un’automobile, uno smartphone o un paio di scarpe, ma roba da mangiare, che può fare la differenza fra buona e cattiva salute; esiste il libero arbitrio? Vero, ma solo fino a quando la libertà non si confonde con la “scelta condizionata”, e un marketing fatto di tette e culi, false dichiarazioni nutrizionali e circuizione di minori mira esattamente a questo.

Ricordatevi, come ha detto Dr. Paul, “Un terzo di ciò che mangiamo è sufficiente a farci vivere; gli altri due terzi servono a far vivere i medici. E se non ci volete credere, allora affidatevi all’intuito, come suggerisce anche lo scrittore e giornalista Michael Pollan: “Non mangiare nulla che tua nonna non riconoscerebbe come cibo”. E quello dei fast food non lo è di certo. 



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