I metodi insostenibili dell'agroindustria, le alternative e la differenza che può fare ciascuno di noi
Forse molte persone pensano che l’agricoltura
di oggi, tutto sommato, sia molto simile a quella che è sempre stata.
Prima si aravano i campi con l’aratro, oggi con i trattori. Prima si concimava
col letame, oggi con i fertilizzanti. È aumentata la quantità e la
qualità del cibo prodotto, ma tutto il resto, più o meno,
è rimasto uguale. Perciò, se oggi si usano metodi industriali per
fertilizzare i terreni o controllare le specie dannose, è tutta normale
amministrazione. Anzi, il modo in cui si fa oggi è anche più evoluto e
più efficiente di ieri.
E invece no. Il modo più
diffuso di fare agricoltura dei tempi moderni esiste appena dagli
anni 50 del Novecento, a partire dalla cosiddetta “Rivoluzione Verde”.
Oltre che di fertilizzanti e pesticidi, è fatto di 4 grandi ingredienti,
cioè un uso massiccio di acqua, largo impiego di macchinari, estese monocolture
e ingegneria genetica (per creare le varietà O.G.M.). Si tratta di una normale
e benvenuta evoluzione delle tecniche? Non direi proprio, visto che
distrugge l’ambiente, affama miliardi di persone, avvelena le altre e si
danneggia da sola.
Parlare di tutto
quanto in una volta sola sarebbe impossibile, ma intanto ci
concentriamo sui protagonisti del titolo, e per chiarirli una volta per tutte: da
quand’è che si usano e come vengono prodotti? Quali sono i loro effetti
negativi? E soprattutto: esiste un altro modo per fare
agricoltura?
Fertilizzanti e fitofarmaci: ma da quando? Perché? E in che modo?
Vita, morte e miracoli dei fertilizzanti
Prima dell’Ottocento, se si voleva garantire la fertilità di un terreno, si sfruttava la rotazione delle colture e la policoltura, in più si aggiungevano fertilizzanti naturali tipo letame, guano, scarti animali e vegetali, o nitrati di sodio ricavati dagli enormi giacimenti del Cile. Dal 19° secolo in poi, invece, si comincia a capire come funzionava a livello chimico-fisico la crescita delle piante, e così nascono i primi metodi per creare fertilizzanti artificiali o sintetici.
I fertilizzanti di oggi fanno tante cose. Migliorano le proprietà chimico-fisiche del terreno, modificano il suo pH, oppure lo arricchiscono in elementi nutritivi, cioè i principali (azoto, fosforo, potassio), i secondari (calcio, magnesio, zolfo) e i microelementi (boro, manganese, zinco, rame, molibdeno, cobalto, ferro). In base all’origine, si distinguono fra animali, vegetali o minerali, e i minerali possono essere naturali (nitrato di sodio, fosforiti, leuciti…), artificiali (perfosfati…) o sintetici (nitrato d’ammonio, solfato di ammonio, calciocianammide). In base al principio attivo, si distinguono fra azotati (N), fosfatici (P), potassici (K) o composti dei tre.
E come vengono prodotti? Nel caso
degli azotati, con metodi industriali a partire da azoto
atmosferico e metano. Per i fosfatici e i potassici, dall’estrazione
mineraria di rocce come apatiti e fosforiti, e da minerali come salgemma,
carnallite, cainite, silvite, polialite e langbeinite.
Sono usati in tutte le
coltivazioni, con dei limiti che dipendono dal tipo di coltura,
tipo di terreno, periodo dell’anno, stadio di crescita della pianta, ecc. I più
utilizzati sono in forma solida, in granuli o polvere, da sciogliere
in acqua o spargere nel terreno, secondariamente anche in forma
liquida.
Un po' come nel caso dei fertilizzanti, per millenni sono state la rotazione e la policoltura a garantire un certo grado di difesa alle colture da altre piante, animali, funghi o batteri. Fra il 15° e il 19° secolo si sono aggiunti altri metodi, tipo l’utilizzo di sostanze come arsenico, mercurio, piombo, piretro o rotenone. Ma solo dopo la Seconda Guerra Mondiale si sono cominciati a produrre i primi veri e propri pesticidi di sintesi, tipo il famigerato DDT.
Oggi i pesticidi sono chiamati anche agrofarmaci, fitofarmaci o prodotti fitosanitari, e sono prodotti per lo più sintetici, ma anche artificiali e naturali, che vengono usati in agricoltura, vivaismo, o aree verdi urbane per difendere le piante da erbe infestanti, funghi, acari, insetti, molluschi, roditori e batteri. Alcuni sono liquidi, altri sono solidi, altri ancora da sciogliere in acqua. Sono applicati direttamente sulla pianta o sparsi per irrigazione, di solito prima della raccolta, ma a volte anche dopo, per garantirne la conservazione. Per usare quelli professionali bisogna essere in possesso di un “patentino” e indossare dei D.P.I. (dispositivi di protezione individuale).
E di che cosa sono fatti? Di solito non sono mai singole sostanze, ma miscele di più sostanze. La principale è la sostanza attiva, o principio attivo, che è quella che svolge il “compito principale” del pesticida; le altre sono sostanze di supporto, tipo propellenti, tensioattivi, adesivanti, ecc. Tra le sostanze sintetiche più famose ci sono di sicuro glifosato, fosetil-alluminio, mancozeb, clorpirifos, folpet, captano e imazalil. Ma attenzione: ogni sostanza si può trovare in più di un prodotto, per cui, se esistono centinaia di sostanze, i prodotti che si trovano in vendita possono essere migliaia o decine di migliaia.
Ma è vero che sono molto
utilizzati? Purtroppo sì. In Italia, per esempio, il
consumo si è ridotto del 14% fra 2015 e 2018, ma il nostro rimane comunque il terzo
Paese in Europa per utilizzo (dopo Francia e Spagna), con una media di
4.6 kg/ettaro all’anno (nel 2018). E sono regolati in qualche modo? Esiste un intervallo
di rientro e uno di sicurezza, cioè un tempo calcolato in giorni in
cui, dopo aver usato un prodotto, si può rientrare in sicurezza nella
coltivazione e si può partire con la raccolta. Ma, soprattutto, esistono dei limiti
ai residui che possono rimanere nel cibo (LMR) e
dei limiti alla dose quotidiana che l’organismo può assumere
senza subire danni (ADI).
Il gioco non vale la candela
Nessuno lo mette in dubbio.
L’invenzione di fertilizzanti e pesticidi artificiali e sintetici ha permesso
delle rese agricole da pura fantasia, e ha risolto il problema dei tanti e
imprevedibili fenomeni naturali che le possono compromettere. Ma la domanda che
ci si pone oggi è: a quale prezzo? Perché, va bene che ogni azione ha le sue
conseguenze ma, se queste non sono sostenibili o sono perfino autodistruttive,
forse è il caso di rivedere qualcosa.
RIFIUTI, RADIAZIONI e GAS SERRA. Secondo uno studio spagnolo e tunisino del 2008, per 1 t di acido fosforico prodotto dalle fosforiti, si generano 5 t di fosfogesso, un minerale di scarto che contiene elementi radioattivi come U, Th, Ra, Rn e Po. L’utilizzo del metano per produrre fertilizzanti azotati si aggira intorno al 2% del consumo globale, però, secondo la EEA (European Environment Agency), il contributo di agricoltura e allevamento alla qualità dell’aria non scherza: si aggiudica il 94% delle emissioni di ammoniaca e il 15% di polveri fini, la prima da fertilizzanti azotati e deiezioni di animali, le seconde prodotte a sua volta da ammoniaca. Per non parlare dei gas serra: fra 2007 e 2016, il 22% dell’azoto totale e il 52% di quello emesso dall’uomo, deriva proprio dalle attività agricole; e l’azoto contribuisce a formare N2O (protossido di azoto), uno dei 5 maggiori gas serra e 200 volte più efficace del CO2. In altre parole, per produrre questi fertilizzanti si inquina l’aria, si praticano estrazioni minerarie (con annessi e connessi) e si generano scarti radioattivi.
EUTROFIZZAZIONE. È quel fenomeno che si verifica quando l’acqua di fiumi, laghi o mari contiene una quantità eccessiva di nutrienti, soprattutto azoto e fosforo. In questi casi, alghe, piante acquatiche e fitoplancton crescono in quantità sulla superficie, limitando il passaggio della luce e il discioglimento di ossigeno nell’acqua. Piante e alghe che vivono sott’acqua muoiono e, se l’ossigeno disciolto diminuisce troppo o scompare del tutto, muoiono anche pesci e altri animali. Senza contare che la decomposizione di tutta questa materia organica genera gas serra come CO2 e metano e, per certe specie di alghe, perfino neurotossine ed epatotossine, dannose anche per l’uomo.
Di sicuro può avvenire naturalmente, ma le attività umane come scarichi urbani e agricoltura sono le cause più frequenti. Si stima infatti che il 50% dell’azoto irrorato sui campi vada perduto per trasporto, volatilizzazione o degradazione. Secondo il rapporto del 2019 della EEA, il 23% dei mari europei presenta problemi di eutrofizzazione e, nella maggior parte dei casi, questi problemi si rilevano vicino ad aree densamente popolate o bacini che si trovano a valle di attività agricole.
SUOLI ACIDI. Esistono
suoli naturalmente acidi, cioè con un pH basso, ma esistono anche
quelli che vengono acidificati a causa di attività umane tipo quelle agricole.
Questo succede perché l’uso intensivo di fertilizzanti azotati,
specie se a base di ammonio, rilasciano molta ammoniaca, che a
sua volta innesca reazioni in aria e acqua che rendono quest’ultima più acida.
Come risultato, lo ione dell’alluminio Al3+ diventa
solubile, viene assorbito dalle piante, e questo danneggia le radici,
che quindi assorbono meno nutrienti.
RESIDUI NELL’ACQUA E NEL CIBO. Si parla per lo più di residui di nitrati e di cadmio, che si possono trovare naturalmente nel terreno, ma derivano anche da fertilizzanti azotati e fosfatici. I nitrati, per la maggior parte, sono espulsi dall’organismo, ma in parte sono convertiti in nitriti, che possono formare nitrosammine, dei composti considerati cancerogeni. I cibi più esposti sono l’acqua, la frutta e gli ortaggi (rucola, spinaci, valeriana, cicoria…). Per le acque, il limite di concentrazione in Italia è fissato a 50 mg/l ma, nel 2020, su 5000 siti di acque sotterranee analizzate dall’Università di Hertfordshire, l’11% è risultato con valori più alti – e già dal 2018 la Commissione Europea chiede al nostro Paese controlli e provvedimenti più efficienti.
Il cadmio, invece, è un metallo pesante, inserito nei cancerogeni del Gruppo 1 dallo IARC (International Agency for Research on Cancer), e causa anche di ipertensione, diabete, impotenza e problemi alla prostata. La dose giornaliera limite consigliata da ANSES (agenzia nazionale francese per la sicurezza alimentare) è di 0.35 µg/kg di peso corporeo al giorno e l’Unione Europea ha fissato quello nei fertilizzanti a 60 mg/kg di P2O5. Però, secondo i test da “Il Salvagente”, non sono rari esempi di insalate in busta con valori che sfiorano 0.20 mg/kg; in pratica, se pesi 70 kg e mangi una busta da 130 g con questi residui, in un colpo solo sei quasi arrivato al limite consigliato.
Gli effetti dei pesticidi
INQUINAMENTO DI TERRENI E ARIA. Uno studio dell’Università di Sydney del 2021 ha mappato la presenza di inquinanti di 92 sostanze attive nei terreni agricoli di 168 Stati del mondo (su 206). Ne risulta che il 64% della superficie agricola mondiale è inquinato da pesticidi, di cui il 16% in aree con elevata biodiversità. Fra i Paesi più colpiti, Cina, Giappone, Malaysia e Filippine, che sono anche fra le aree più produttive al mondo dal punto di vista agricolo.
A peggiorare l’effetto, c’è il fatto che molte molecole di sintesi fanno parte dei VOC (Composti Organici Volatili), cioè dei composti che passano rapidamente allo stato gassoso già a temperatura ambiente. Per via di questo, anche in assenza di vento, le particelle dei prodotti vanno incontro all’effetto deriva, cioè una dispersione aerea che può arrivare anche a 10-150m dal punto di applicazione, col risultato di inquinare colture biologiche o abitazioni circostanti. Inoltre, contribuiscono non poco all’effetto serra, perché aumentano il tempo di permanenza del metano in atmosfera. E poi, favoriscono la formazione di ozono troposferico (O3), che non solo agisce come gas serra, ma crea anche danni alla vegetazione (colture comprese) e provoca patologie respiratorie.
Altre sostanze, invece, fanno
parte dei POP (Inquinanti Organici Persistenti), dei composti
che, siccome sono molto resistenti alla degradazione, rimangono
per anni nell’ambiente e riescono a diffondersi su enormi distanze. Orsi
polari e foche dell’Artide sono stati trovati con accumuli
dell’insetticida endosulfano, mentre DDT, HCB, endrin e eptacloro si sono
rilevati negli escrementi di pinguini dell’Antartide. Il
clorpirifos è stato rintracciato sui ghiacciai del Monte Rosa,
l’atrazina si trova nelle acque della Pianura Padana anche se è
bandita da 30 anni e, in alcuni casi studio, tracce di glifosato
si rilevano anche 21 mesi dopo la sua applicazione.
BERSAGLI NON CALCOLATI. Che le sostanze “spruzzate” vadano a colpire anche altre specie, oltre a quelle bersaglio, è un fattore difficilmente eliminabile. Ma, siccome gli effetti negativi di quelle sintetiche sono molti e molto gravi, come vedremo fra poco, questo fattore inevitabile diventa la classica “pioggia sul bagnato” di cui non abbiamo proprio bisogno.
Il primo “bersaglio collaterale” è il microbioma del suolo, quell’insieme di microrganisimi essenziale per l’assimilazione di acqua e nutrienti, per la comunicazione fra piante, per il rinnovo della fertilità e per la protezione dai patogeni. Se non vengono uccisi, di sicuro sono contaminati, e siccome molte sostanze di sintesi vanno incontro a bioaccumulo, ne vengono inquinati anche gli insetti che li mangiano, e anche gli uccelli che mangiano loro e gli insetti. Stessa sorte tocca agli animali selvatici che invadono le coltivazioni, e anche a tanti altri: tramite l’inquinamento dell’acqua, i loro effetti arrivano al plancton, ai pesci, o ad anfibi e rettili come rane e tartarughe.
Ma il caso più ironico è quello
degli insetti impollinatori. Sostanze tipo glifosato, boscalid e numerosi
neonicotinoidi, colpiscono direttamente le api e le loro larve, oppure molte
piante di cui loro si nutrono. Il risultato è che, solo fra 2016 e 2021, nel
mondo sono scomparsi circa 10 milioni di alveari, di cui 200.000 in Italia (e
tenete presente che ogni alveare conta circa 80.000 api). Perché è un caso
ironico? Perché solo le api, grazie alla loro impollinazione, consentono la
riproduzione di più del 70% delle colture del mondo. Delle 264 specie coltivate
in Europa, l’84% viene impollinato dalle api. Se poi ci sommiamo altri
impollinatori tipo bombi, farfalle, falene e sirfidi, è a loro che si deve la
sopravvivenza di ben 4000 specie vegetali europee. In pratica, per poter
coltivare, l’agricoltura intensiva compromette sé stessa.
RESIDUI NELL’ACQUA. I pesticidi possono finire nelle acque superficiali o sotterranee per via di quell’effetto deriva che abbiamo visto prima, tramite l’acqua che scorre in superficie, percolando attraverso il suolo, oppure per erosione del suolo o cause accidentali. Di sicuro influiscono mille fattori, tipo la solubilità del principio attivo, il tipo di suolo, il metodo di applicazione, il meteo, o la distanza fra coltura e corpo idrico in questione. Ma resta il fatto che le acque ne sono contaminate, tant’è che sono stati fissati dei limiti di concentrazione: 0.1 µg /l per singola sostanza, 1 µg /l come somma (0.5 µg /l se si tratta di acqua potabile).
E le analisi che cosa dicono? Per lo meno in Italia, il rapporto ISPRA del 2018 la dice lunga. Si sono trovati residui di pesticidi nel 77.3% dei 1980 campioni di acque superficiali, e nel 32.2% dei 2795 di quelle sotterranee. Su 426 sostanze cercate, ne sono state trovate 299, e si parla di concentrazione oltre i limiti per il 21% dei punti superficiali e per il 5.2% di quelli sotterranei. Fra le sostanze più di frequente oltre i limiti, glifosato, metolaclor, dimetomorf, azossistrobina, benzatone, triadimenol, oxadixil e matalaxil.
La cosa curiosa,
poi, è che, se anche il consumo di pesticidi nel tempo è diminuito, l’inquinamento
è aumentato. In Italia, l’autorizzazione di nuove
sostanze attive e la vendita di pesticidi è diminuita di un 14% fra 2015 e
2018, però, fra 2009 e 2018, il numero di punti campionati
con residui è cresciuto di un 25% per le acque superficiali e 15% per
le sotterranee. Per non parlare del numero di residui in un campione:
se nel 2008 si arrivava a un massimo di 15 sostanze in un campione, nel 2016 si
è arrivati a 55. Di sicuro si deve anche a dei monitoraggi più efficaci,
ma anche al fatto che, come si è detto, molte di queste sostanze sono persistenti,
perciò, nel corso del tempo, vanno a creare un accumulo (anche se
sono bandite da anni).
RESIDUI NEL CIBO. Ci sono due motivi per cui sul cibo possono rimanere residui di pesticidi. Il primo, è che molti di questi sono sistemici, cioè non si limitano a depositarsi sulla superficie, me penetrano in tutti gli organi della pianta, frutti compresi. Il secondo è che, siccome sono sostanze difficilmente smaltite dagli organismi, prima vanno incontro a bioaccumulo, cioè si accumulano nel singolo organismo, e poi a biomagnificazione, cioè si accumulano nella catena alimentare: se A, B e C mangiano pesticidi, e poi B mangia A e C mangia B, il C si ritrova con una concentrazione che può essere anche 70.000 volte quella iniziale. Noi umani, quindi, possiamo mangiare pesticidi tramite frutta, verdura, legumi, miele, pane, pasta e vino, ma anche attraverso la carne e i prodotti caseari di animali da allevamento, se questi animali hanno mangiato cibo contaminato.
E, in questo caso, le analisi cosa dicono? Quelle del 2018 dell’EFSA (European Food Safety Authority) hanno riguardato 91.015 campioni: il 95.5% è risultato con residui sotto i limiti, il 4.8% oltre i limiti (3% nel 2017) e il 29.1% con più di un residuo. Boscalid, imazalil, fludioxinil e acetamiprid fra le sostanze più rinvenute, e DDT, HCB e lindane fra quelle già bandite da anni. In Italia, le analisi del 2019 su 5835 campioni hanno rilevato un 52% senza residuo, un 1.2% oltre i limiti e un 46.8% regolare ma con uno o più residui (di cui un 27.6% con 2 o più). La frutta è l’alimento più colpito (uva, pere, pesche, fragole, mele), al secondo posto la verdura (pomodori, peperoni, carote), poi vino e prodotti a base di cereali integrali. Fungicidi e insetticidi fra le sostanze più trovate, con clorpirifos e acetamiprid che dominano fra i campioni irregolari.
Già mi vedo qualcuno che, di fronte a queste percentuali, si mette a sbraitare che la situazione è piuttosto positiva, e che le critiche che si fanno sono solo allarmismo. Ma ora vi spiego dove sta il problema: se i campioni sono regolari, ma c’è più di un residuo, non è che c’è un effetto cumulativo? E se la concentrazione è molto bassa, o talmente piccola che va oltre i limiti strumentali (LMQ), siamo sicuri lo stesso che non ci siano dei danni?
EFFETTI SULLA SALUTE. Più in generale, siamo esposti ai pesticidi non solo tramite cibo e acqua, ma anche tramite l’aria (per via del famoso “effetto deriva”), tramite la polvere domestica (in cui si sono trovate tracce di pesticidi), a casa (per chi li usa in orti o giardini), sul posto di lavoro (per chi li maneggia), e anche tramite gli abiti (nel caso dei familiari di chi li maneggia). Si capisce bene, allora, che quasi nessuno si può dire del tutto non esposto. Però possiamo anche dire che operatori agricoli, bambini e feti sono i soggetti più esposti di tutti. Nei primi, alcuni studi hanno riscontrato ben 33 sostanze nei loro capelli e nel loro sangue (anche se usavano correttamente i D.P.I.). Nei secondi, per via dell’abitudine di portare mani e oggetti alla bocca, e per un metabolismo non efficace come quello di un adulto a smaltire tossine. Nei terzi, per via degli organi in fase di sviluppo che sono sensibilissimi a sostanze tossiche.
Che esistono dei limiti lo abbiamo già detto, ma ci sono molti aspetti discutibili. I limiti per le acque potabili, per esempio, sono stati fissati oltre 20 anni fa, e non sono basati su valutazioni tossicologiche, ma soltanto sui limiti che le strumentazioni di allora riuscivano a misurare. E se i residui in un campione sono tutti a norma, ma ce ne sono 2, 10 o 20? Si parla del famoso “effetto cocktail”: la EFSA lo sta ancora valutando, ma già non mancano degli studi che provano come un mix di sostanze, anche se singolarmente sono a legge, provochi danni anche peggiori. E poi, c’è la questione delle concentrazioni molto basse. Tutti gli ormoni del nostro organismo funzionano già a concentrazioni bassissime, ma ci sono pesticidi che, per la loro struttura chimica, fanno da interferenti endocrini, cioè mimano e compromettono le funzioni degli ormoni; di conseguenza, basta che abbiano una concentrazione minima, al di sotto degli attuali limiti di legge, e i loro effetti già si fanno sentire.
Detto questo, infatti, quali sono gli effetti di queste sostanze su di noi? In generale, sono state collegate a ritardi cognitivi, disturbi comportamentali, difetti alla nascita, Parkinson, Alzheimer, SLA, diabete, obesità, espressione dei geni, disturbi motori, sterilità, aborto spontaneo, danni alla tiroide, compromissione di sistema immunitario ed endocrino, e cancro. Qualche esempio specifico? Potremmo dire DDT, atrazina e mancozeb, interferenti endocrini. Captano, dcpa e imazalil, cancerogeni. Il benzatone, associato a sterilità. Il clorpirifos, collegato a carenze di memoria o intellettive, disturbi respiratori, cardiaci, neurodegenerativi o dello spettro autistico. Oppure, il tanto chiacchierato glifosato: studi non più vecchi del 2018 lo legano a cancro, interferenza endocrina, anomalie congenite, aborto spontaneo, danni al fegato e al microbioma intestinale e del suolo, e morie di api.
Di sicuro sono tutte patologie
che possono avere tantissime cause, non soltanto i pesticidi, ma l’associazione
statistica che hanno con questi non può essere casuale. E, in ogni
caso, teniamo presente che i loro effetti possono sommarsi a
quelli di tante altre sostanze nocive che, purtroppo, assorbiamo, e che possono
trasmettersi geneticamente a diverse generazioni successive (fino
alla 4^, nel caso del clorpirifos). I numeri stimanti recentemente dal PAN (Pesticide
Action Network), allora, non ci devono stupire: ogni anno, 385
milioni di casi di avvelenamento grave nel mondo, che si traducono in
11.000 morti. Nel 1990, l’OMS stimava soltanto 1 milione, perciò che è
successo? Di sicuro il PAN ha avuto accesso a più dati, ma è anche vero che, da
allora, il consumo globale di pesticidi è cresciuto di un +81%.
Quello che aziende e istituzioni (non) stanno facendo per risolvere il problema
Arrivati fino a qui, sarebbe comprensibile se a molti di voi venisse spontanea una domanda: ma le aziende coinvolte tutto questo lo sanno o fanno orecchie da mercante? Ne prendono atto e cercano delle soluzioni, oppure se ne fregano e, in barba alla salute di ambiente e persone, pensano solo a tirare l’acqua al loro mulino? Mi rendo conto che per molti è più probabile la prima risposta, perché tutto il cinismo della seconda sarebbe troppo spregevole per essere possibile. Beh, che dire? Non mi resta che invitarvi ad un “giudicate voi stessi”.
RICERCA MANIPOLATA. Fra i mille modi con cui queste industrie cercano di far prevalere i loro interessi su quelli di chiunque altro, il più classico e navigato è quello di manipolare la ricerca scientifica. Nel 2015, lo IARC classifica come cancerogeno Classe 2° il glifosato, l’erbicida più usato al mondo messo in commercio da “Monsanto” nel 1974. Nello stesso anno, BFR (Bundesinstitut für Risikobewertung) e EFSA pubblicano rapporti che lo smentiscono, ma viene fuori che questi rapporti riportano dati non pubblicati, hanno omesso referenze, e alcune sezioni sono dei copia-incolla di studi precedenti della “Monsanto”. Nel 2016, anche OMS e FAO si schierano contro lo IARC, ma si scopre che presidente e co-presidente del gruppo di valutazione fanno parte dell’ILSI, un istituto di ricerca finanziato da “Monsanto”. Fra 2016 e 2017, USDA e FDA, che testano i residui di pesticidi negli alimenti ogni anno, saltano puntualmente i test per il glifosato; nel 2018 la FDA non li salta, ma nel suo rapporto omette di averne trovato in alcuni campioni. Dulcis in fundo, nel 2019 anche la ATSDR conferma il potenziale cancerogeno e, se lo fa con 4 anni di ritardo rispetto allo IARC, è perché EPA e “Monsanto” hanno cercato di ostacolare la pubblicazione del rapporto.
Facciamo un altro esempio? Non c’è problema, tanto non mancano. Prima del 2017, la EPA stava meditano di bandire il clorpirifos, il principio attivo sviluppato nel 1965 da “Dow Chemical” (oggi “Dow DuPont”). Ma poi viene eletto Donald Trump, un noto negazionista climatico, e nel 2018 il nuovo direttore EPA diventa Scott Pruitt, un altro antiecologista, che decide di non revocare la sostanza perché le prove sulla sua pericolosità non sono sufficienti. Nello stesso anno, poi, Pruitt viene sostituito da Andrew Wheeler, che non solo ha gli stessi ideali di Trump e Pruitt, ma è anche ex avvocato di “Faegre Baker Daniels”, lo studio legale che, fra i suoi clienti, ha proprio la “Dow DuPont”. Risultato, la revisione per l’autorizzazione del clorpirifos è stata rinviata ad ottobre 2022.
FINAZIAMENTI DIROTTATI. Che siamo un periodo storico di emergenza ambientale lo ripetono anche i muri, i fondi pubblici potrebbero favorire un’agricoltura sostenibile per risolvere il problema ma, nei fatti, chi continua a usufruire dei fondi sono le grandi aziende intensive. Prendete il caso dell’Europa: fin dagli anni 60, ogni 7 anni, quasi la metà di tutti i fondi europei (oggi il 40%) viene destinata alla PAC (Politica Agricola Comune), la politica che spartisce i finanziamenti fra tutti i produttori agricoli dell’Unione. Ma la PAC 2014-2020, su 41.5 miliardi forniti all’Italia, al biologico ha destinato solo 963 milioni (il 14.5%). E con la PAC 2021-2027 non va meglio: non prevede la riduzione del 30% delle emissioni agricole al 2027, redistribuisce i fondi sulla base di ettari coltivati/capi allevati (quindi sono avvantaggiate le grandi aziende), e l’80% delle risorse va al 20% dei beneficiari. Chi? A guardare l’elenco dei 50 maggiori beneficiari italiani, i primi 10 sono FINAF, AOP, VOG, UNAPROL, VIP, CREA e Confagricoltura.
USO E ABUSO. La EEA ha stabilito limiti di residui negli alimenti per 500 principi attivi, e questo va molto bene. Secondo il PAN, poi, 162 Paesi nel mondo (su 206) hanno già vietato 460 sostanze, e Unione Europea e Regno Unito sono in testa, con 175 vietate e 208 non approvare (ma non ancora vietate); e anche questo va molto bene. D’altra parte, però, ci sono degli episodi e dei fatti che stonano un po' con questi esempi positivi.
Vieta di qua e vieta di là ma, fra 2017 e 2019, la ECHA (European Chemicals Agency) ha autorizzato 5212 prodotti di sintesi nuovi di zecca. Nel 2018, 3 pesticidi neonicotinoidi molto dannosi per le api sono stati vietati ma, nel 2020, la EFSA ha ricevuto delle richieste talmente pressanti da alcuni Paesi che, alla fine, ha concesso una deroga per tornare ad usarli contro gli afidi delle barbabietole. Se ti chiami “Spagna” e sei il primo produttore europeo di arance, ma minacciano di introdurre limiti stretti ai residui di un fungicida come imazalil, non ti resta che fare un po' di pressione: e così accade come nel 2019, quando la EFSA abbassa i limiti per le banane e i limoni, ma per le arance rimangono uguali. E poi c’è l’Italia, che come al solito ci tiene a farsi notare: fra 2006 e 2016, la spesa italiana per i pesticidi ha segnato un +50%, e nel 2018 la media di consumo è 4.6 kg/ettaro all’anno (contro i 3.8 kg/ettaro della media europea).
ESPORTAZIONE. Ma se
opinione pubblica, ricerca e istituzioni hanno la meglio sulla
corruzione e una sostanza viene bandita, o molto limitata, che si fa? Si chiude
baracca e burattini e si smette di produrla? Non è detto, perché una scappatoia
rimane ancora: la esportiamo. Secondo il rapporto di “Unearthed”
e “Public Eye”, nel 2018 l’Europa ha esportato 81.615 t di 41
sostanze vietate verso 85 Paesi nel mondo. Regno Unito, Italia e
Germania sono i primi tre esportatori, ma fra gli altri ci sono anche
Francia, Spagna, Olanda e Belgio. Fra le destinazioni principali,
Ucraina, Marocco, Sud Africa, Sudan, Senegal, India, Giappone, Iran, Vietnam,
Israele, Iraq, Pakistan, Bangladesh, Filippine, Australia, Canada, USA, Cile,
Brasile, Equador, Messico e Repubblica Dominicana. Le sostanze più
esportate sono state trifluralin, ethafluralin, atrazina, alachlor,
1,3-d, propargite, paraquat, acetochlor, cloropicrina e carbendazim, ad opera
di un pugno di aziende come “Syngenta”, “Bayer”, “Corteva”,
“Inovyn”, “Sipcam Oxon”, “Finchimica” e “Arysta Lifescience”. E la cosa
ironica sapere qual è? Che Paesi come USA, Brasile e Ucraina
sono i principali fornitori di prodotti agricoli per l’Europa. In altre
parole, prima la sostanza viene bandita, poi viene esportata, e infine
ce la ritroviamo nel piatto.
E le soluzioni? Di tutti i colori e per tutti i gusti
Nel caso di frutta e verdura, si potrebbe pensare che sciacquandole ben bene, magari con un po' di bicarbonato, si possono eliminare tutti i residui presenti. Ma non è così. Nel 2016, l’associazione francese “Ufc-Que Choisir” ha fatto proprio un esperimento del genere: risultato, mele non lavate presentavano 9 residui, se venivano lavate ne rimanevano 8 in quantità ridotte del 12%, e se sbucciate ne rimanevano 6 in quantità dimezzate rispetto a quelle lavate. In altre parole, sciacquarle cambia poco, perché, come si è già detto, molti pesticidi sono sistemici, perciò permeano tutto l’interno dei frutti.
E gli O.G.M.?
Possono essere una soluzione? Non direi. La maggior parte delle coltivazioni
O.G.M. è concentrata nei Paesi in via di sviluppo, e i semi di
queste varietà di colture sono brevetti delle aziende che li
hanno creati. Di conseguenza, gli agricoltori locali perdono il controllo
della gestione dei semi, della produzione e della terra: per coltivare il loro
cibo, diventano dipendenti da queste aziende e dai Paesi esteri.
Per non parlare dei danni ambientali e sulla salute. È vero, non
sono ancora accertati in maniera definitiva ma, proprio per questo, devono
invitare al cosiddetto “principio di precauzione”: finché non se
ne sa di più, meglio evitare.
Una terza soluzione,
che è quella più sbandierata dalle aziende, è quella di fare formazione.
Perché, nella loro ottica, se gli agricoltori ne risentono in salute, è colpa
del fatto che non leggono le avvertenze o usano i prodotti in modo
sbagliato. Ecco perché “Bayer”, “BASF” e “Syngenta” hanno già investito
svariati milioni in corsi di formazione nei Paesi in cui esportano i
pesticidi vietati in Europa. Peccato, però, che, spesso, gli
agricoltori di questi Paesi sono persone in estreme condizioni di povertà,
lavoratori a nero, senza cultura, capaci di parlare solo la lingua nativa.
Di questi “corsi di formazione”, probabilmente, non ne conoscono nemmeno
l’esistenza. E per il problema degli effetti sulla salute umana e
dell’ambiente? Anche questo si risolve con dei corsi di formazione?
Le alternative esistono già
Allora che cosa si può fare? Esistono dei metodi alternativi per ottenere gli stessi risultati? E, più in generale, c’è un altro modo per fare agricoltura? Come al solito per ogni problema, la risposta è “Sì”.
Chiamatela “biologica”, “sostenibile”, “ecologica”, ma questa è l’agricoltura alternativa, una che già oggi rappresenta il 7.5% del suolo agricolo europeo. L’Italia è la punta di diamante del continente, perché il biologico copre il 15.8% della superficie agricola, conta 80.000 operatori, 58.000 aziende, e vanta 3.3 miliardi di fatturato solo nel 2019. E gli obbiettivi internazionali e nazionali puntano già a un 25% a livello europeo e un 40% a livello italiano entro il 2030.
Questa agricoltura è anche quella
che porta con sé i metodi alternativi. Per fertilizzare
i terreni, prevede delle tecniche come la rotazione delle colture (tipo il
sovescio di leguminose) e la policoltura. Fra le sostanze,
utilizza letame di animali da allevamento, humus, compost o cenere di legno.
Per controllare infestanti, che siano piante, animali, funghi o
batteri, di nuovo sono usate delle tecniche come la rotazione o la
policoltura, ma anche la falsa semina, il pirodiserbo, oppure trappole
alimentari, ai feromoni o cromotropiche. E per le sostanze? Pesticidi sì,
ma non sintetici: sali di rame, piretrine, propoli, cera d’api, olio di
neem, polveri di roccia come caolino, zeoliti o bentonite, tecniche di
biocontrollo come il Bacillus thuringiesis, o macerati di piante come
ortica, aglio, pomodoro, equiseto, felce, assenzio o peperoncino. E ne ho
elencate solo alcune.
Insomma, di alternative ce
ne sono per riempire un’enciclopedia. Ma mi rendo conto che la buona
informazione scarseggia, l’educazione scolastica fa pena, l’argomento è complesso,
e i luoghi comuni fioccano come coriandoli a Carnevale. Perciò, se volete
approfondire, capire sul serio una volta per tutte come
stanno le cose e sfatare le dicerie, vi invito a cercare sul sito
“Coltivazionebiologica.it”. Creato da dei professionisti del settore, è uno dei
più ricchi ed esaurienti che si trovano sull’argomento nel web italiano.
Ci sono molte obiezioni mosse da chi sostiene il modello intensivo, o semplicemente da chi non ne sa abbastanza. Se ci si limita a cambiare certe sostanze con altre, dato che sono meno efficienti, le rese agricole ne risentono. Le rese dei terreni biologici sono inferiori anche del 50%, come si fa a soddisfare la domanda? Facile dire “cambiare”, ma al medio/piccolo agricoltore possono mancare le conoscenze e le risorse per farlo. Esistono degli standard di quantità e qualità dei prodotti che la coltura biologica non può soddisfare, soprattutto nelle piccole aziende. Se tutte le colture del mondo fossero convertite al bio, dato che hanno rese inferiori, bisognerebbe espandere i terreni causando ancora più distruzione di habitat. Facile dire “compra biologico”, ma i prodotti bio costano di più, non tutti se li possono permettere. E poi, come ciliegina sulla torta, pochi Paesi possono avere accesso al “chilometro zero”, certe colture fondamentali in alcuni climi non crescono, e soprattutto sarebbe impossibile sfamare il mondo.
Ma quello che non si vede
(o non si vuole vedere) è che la soluzione non è una sola, una che agisce su un
solo fronte tipo “cambiare le sostanze”. La soluzione è un’azione a 360°,
agendo su più fronti allo stesso tempo. La soluzione è un approccio
olistico.
Non solo sostanze diverse, ma anche tecniche diverse, come le già citate rotazione e policoltura. Tornare alla biodiversità delle colture che c’era in passato, puntando di più su quelle native e adattate ai climi e ai suoli del posto. Convertire in colture “da cibo” una buona parte di quelle che oggi servono per mangimi di allevamenti industriali e per produrre biocarburanti. E “fuori dal campo”? Il modello sostenibile deve ricevere i finanziamenti che merita, e bisogna investire nella formazione di nuovi e vecchi agricoltori. Un’economia soprattutto globalizzata è dannosa e precaria (la COVID-19 lo ha dimostrato), perciò bisogna puntare su una più locale, di prossimità, che miri a soddisfare di più i bisogni (e non i vizi) del posto, non del mondo. E a ogni Paese deve essere garantita la possibilità dell’autonomia per la produzione di cibo, quindi la sovranità alimentare, non la dipendenza da altri Paesi.
Non vi bastano? Tranquilli, ci sono anche quelle che dipendono dai “non addetti ai lavori”. Secondo la FAO, 1/3 della produzione mondiale di cibo finisce sprecato ogni anno e il 56% avviene nei Paesi ricchi, non solo per colpa dei metodi di produzione, ma anche per quelli di consumo. Perché manca la consapevolezza sul problema e sulla buona alimentazione, perciò sono in molti a pretendere alti standard di qualità e quantità a cui li ha abituati la “drogata” produzione intensiva, a fare acquisti e preparare porzioni esagerati, a mangiare cibi scadenti e dal grosso impatto ambientale, e a seguire delle pessime abitudini alimentari. Perciò, c’è bisogno di fare informazione e formazione, fra media e istruzione, per creare consapevolezza sul problema, su delle buone abitudini alimentari e su come acquistare in maniera consapevole.
Ecco, questa è la vera
soluzione. Con un’azione a 360° come questa, tutti i problemi sollevati
da quelle obiezioni diventano lontani ricordi. Le rese biologiche
sono più basse? Vero, ma al massimo di un 23% e al minimo di un 5%, secondo gli
studi della “Royal Society” del 2015. E comunque non costituisce un
problema, se vengono affiancate allo stesso tempo anche le altre
soluzioni.
La morale di tutta questa favola è molto semplice: il modo in cui produciamo il nostro cibo da 70 anni a questa parte non è sostenibile e va cambiato. Perché, partito con l’intenzione di sfamare il mondo intero, nei fatti lo avvelena, lo danneggia, non garantisce il cibo per tutti e, a lungo andare, si autodistrugge.
A proposito: basta prendersi per i fondelli con i soliti discorsi che, per sfamare tutti, c’è bisogno del modello industriale, e magari anche di cominciare a mangiare i millepiedi. Al giorno d’oggi, il 66% della produzione agricola mondiale si basa su 9 specie vegetali commestibili delle 6000 che sarebbero disponibili. Mentre 1 miliardo di persone nel mondo non ha abbastanza cibo, solo nei Paesi dell’Occidente 1 miliardo a mezzo sono in sovrappeso, e 1/3 di queste sono obese. Di tutta la produzione annua, 1/3 finisce sprecato, cosa che corrisponde al 28% della superficie agricola del pianeta e a 500 milioni di potenziali persone con il cibo nel piatto. Due allevamenti su tre sono di tipo intensivo, e per ingrassare i loro animali viene usato il 50% dei terreni agricoli del mondo e i 2/3 della produzione di cereali dei Paesi industrializzati – e il 53% della carne consumata si deve alle bocche di 2 miliardi di persone su 7. Per cui no, il problema non è che non c’è abbastanza cibo. Il problema è che mangiano solo i ricchi. Anzi, producono più di quello che mangiano, mangiano troppo e, per fare tutto questo, si avvelenano, distruggono l’ambiente e compromettono il modo stesso con cui si procurano tutto quel cibo.
La verità più vera è che, passano i secoli o i millenni, ma è sempre il solito brodo. I responsabili sono affatturati dal controllo che possono esercitare e dal profitto che possono incassare, tanto da negare o sottovalutare che gli effetti di quei veleni li subiscono pure loro e i loro discendenti. Mentre gli altri, di fronte ad un problema che appare complesso, globale e al di fuori della loro portata, preferiscono ignorarlo, negarlo, o arrendersi, piuttosto che combattere per capirlo e per cambiarlo.
Ma, se questo succede, il
principale di tutti i motivi è la scarsa consapevolezza. È il
fatto che molti sanno poco o nulla del problema e di quello che possono fare
per risolverlo. Sicuramente ci saranno anche mille altri motivi ma, se istruzione
e informazione fossero fatte come dovrebbero (e non solo in questo
ambito), ci sarebbero più agricoltori consapevoli di come produrre,
e più acquirenti consapevoli di come mangiare. Questo
articolo ha contribuito a crearne un po'? Lo spero proprio.
Articoli correlati
Fonti:
- "Legambiente" - Dossier "Stop pesticidi" 2020
- "Legambiente" - Sovranità alimentare
- "Legambiente" - Forum agroecologia di Legambiente: parte l'alleanza per un nuovo modello di agricoltura
- "Legambiente" - Giornata dell'alimentazione: sconfiggere la fame curando il suolo
- "Greenpeace" - Rapporto "Tossico come un pesticida" 2015
- "Greenpeace" - Quattro buoni motivi per difendere il suolo e le foreste
- "CIWF" - L’allevamento intensivo spezza i nostri sistemi alimentari e sottrae cereali e altre risorse preziose a quanti ne hanno più bisogno.
- "Unearthed" - Thousands of tonnes of banned pesticides shipped to poorer countries from British and European factories
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- "ARPA Veneto" - Eutrofizzazione
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- "EFSA" - Pesticidi
- "EEA" - Nutrient enrichment and eutrophication in Europe's seas
- "EEA" - Una questione di chimica
- "Royal Society" - Diversification practices reduce organic to conventional yield gap
- "Science Direct" - Environmental impact and management of phosphogypsum
- "IFA (International Fertilizer Industry Association)" - Raw material reserves
- "Enciclopedia Treccani" - Fertilizzanti
- "Sapere.it" - Fertilizzante
- "Coltivazionebiologica.it" - Tecniche Bio
- "Coltivazionebiologica.it" - Rimedi e preparati





















