giovedì 25 giugno 2020

Tagliare alberi senza ritegno significa estinzioni senza contegno

Cause e conseguenze della deforestazione, i benefici delle foreste e cosa possiamo fare per salvaguardarle


Le statistiche dicono che il 91% degli europei è consapevole dell’importanza delle foreste per la propria vita. Un dato davvero rincuorante, e che però cozza di brutto con le evidenze di tutti i giorni: se prendi una persona a caso e gli chiedi a cosa servono le foreste, quella ti dirà che fanno ombra, che producono ossigeno e che sono belle a vedersi; qualcuno azzarderà anche che “tengono l’aria pulita”, ma in che modo e in che senso non saprebbe dire. Colpa loro? Assolutamente no. Colpa dell'istruzione che fa pena e dalla pessima informazione che si fa.

È per colpa di queste se ci dicono che “La superficie forestale italiana è in un aumento”, ma non ci dicono che il termine di paragone è quello del primo Novecento, quando le nostre foreste hanno raggiunto il minimo storico. È grazie a queste che pensiamo che le foreste servano solo a quelle poche cose, e non anche a farci avere il cibo in tavola, l’acqua in bottiglia e l’aria da respirare. Ed è sempre per via di quelle che non sappiamo che, quando facciamo la spesa, possiamo finanziare crimini contro l’umanità, o impedire il prossimo disastro ambientale.

Dietro al taglio delle foreste c’è tutto questo e molto altro, anche la diffusione della COVID-19, l’ultimo avvertimento sull’elenco dei tanti allarmi che proprio le foreste ci hanno già mandato. Perciò, sediamoci comodi e cerchiamo di capire: che cos’è la deforestazione? Da chi e da cosa è causata e quali sono i suoi effetti? Cosa possiamo fare per salvare le foreste (e quindi noi stessi)?

Il confine fra “gestione” e “deforestazione”


Tagliare alberi è sempre e comunque un male? Diciamo che dipende da come, dove, quando e perché viene fatto. In fondo, come nel caso di altri animali, anche le piante sono da sempre oggetto di “caccia” da parte dell’uomo. Vengono tagliate per fare spazio a coltivazioni, allevamenti o centri abitati. Oppure per ricavarne risorse come il legname, la gomma o l'olio di palma che vengono usate negli ambiti più disparati, tipo l’industria immobiliare, il settore automobilistico o la produzione di alimenti. In casi particolari, anche per rimuovere piante malate o bruciate.

Logo "FSC" e logo "PEFC"
Che si parli di piante o di animali, non esiste un’azione di prelievo che abbia un impatto ambientale pari a “0”, però possiamo dire questo: fino a che il prelievo cerca di ridurre al minimo questo impatto, garantendo anche una buona rinnovabilità della foresta, allora si parla di silvicoltura, o gestione sostenibile, o gestione responsabile. Prodotti che riportano marchi ecologici internazionali come FSC (Forest Stewardship Council) o PEFC (Programme for the Endorsement of Forest Certification schemes) stanno ad indicare esattamente questo, cioè che derivano da foreste gestite in maniera sostenibile, nel rispetto dei diritti di popolazioni indigene e cercando di favorire le economie locali. Ad oggi, mettendo insieme le statistiche di questi due marchi, abbiamo circa 5 milioni km2 di foresta certificati (9250 in Italia), 750.000 proprietari forestali (24.000 in Italia) e 56.000 aziende (4000 in Italia).

Nel momento in cui si tagliano piante appartenenti a specie protette o non comprese nelle concessioni, o in numero superiore alle autorizzazioni, o di dimensioni superiori o inferiori a quelle stabilite, o perfino si prelevano in aree protette, riserve naturali o zono abitate da indigeni, ecco che si parla di disboscamento illegale. Se poi si abbattono interi settori di foresta per far spazio a cose come interventi urbani, campi coltivati o pascoli e recinti da allevamento, allora si parla proprio di deforestazione. Anche questa non è una pratica che esiste dall’altro ieri, ma che affonda le sue radici nell’avvento dell’agricoltura più 10.000 anni fa. Il punto, però, è che il tasso di deforestazione ha iniziato a toccare livelli preoccupanti dai tempi della Rivoluzione Industriale, e soprattutto nella seconda metà del XX secolo, a causa di estrazioni minerarie, agricoltura intensiva e allevamenti intensivi.

Le cause della deforestazione


A che punto sono oggi le foreste?

Le foreste coprono oggi 40 milioni di km2, cioè circa il 31% delle terre emerse; detto in altre parole, stiamo parlando di una superficie estesa quasi come tutta quanta l'Asia. Il 45% è fatto di foreste tropicali, il 27% di foreste boreali, mentre il 16% e l’11% di foreste temperate e sub-tropicali, tutte spalmate per oltre la metà su Paesi come Russia, Cina, Brasile, USA e Canada. Ma fino a 10.000 anni fa, le foreste occupavano non il 31%, ma il 60% delle terre emerse, mentre oggi le foreste vergini  rappresentano ormai il 15% di tutte quelle rimaste. E a questo risultato, per la maggior parte, ci siamo arrivati in anni recenti: secondo il rapporto del 2020 della FAO (Organizzazione delle Nazioni Unite per l'alimentazione e l'agricoltura), solo dal 1990 ad oggi sono stati deforestati 4.200.000 km2, che è come dire un’area estesa quanto Libia, Egitto e Sudan messi insieme. Dove? Soprattutto in Paesi come Brasile, Indonesia, Argentina, Bolivia, Colombia, Perù, Camerun, Guinea Equatoriale, Gabon e Liberia. Tutte nazioni in cui, secondo le stime di WWF e Banca Mondiale, il disboscamento illegale rappresenta fra il 50 e l’80% di tutto il disboscamento. Le prime tre sono sicuramente le più colpite: fra il 1990 e il 2018, il taglio illegale ha portato via 632.000 km2 di foresta, in pratica un’area grande quanto la somma di Germania, Regno Unito, Olanda e Belgio.

Se poi si vuole dare nome e cognome alle singole zone più minacciate, il WWF ha redatto una classifica nel 2015 delle 11 foreste più a rischio al mondo: la Foresta Amazzonica, la Foresta Atlantica e il Cerrado del Brasile, il Borneo, Sumatra e il Grande Mekong del sud-est asiatico, il Choco-Darien nel Sud America, il Bacino del Congo nel'Africa centrale, l'Africa orientale e l'Australia orientale.

Nomi e cognomi di chi distrugge le foreste e cosa ne ricava


Secondo la UNEP (Programma delle Nazioni Unite per l'ambiente), mettendo insieme il commercio di specie selvatiche, la pesca, il taglio di foreste, l’estrazione mineraria e il commercio e scarico di rifiuti, il saccheggio illegale di natura rappresenta un mercato del valore di $ 213 miliardi all’anno; e il terzo fra loro, cioè il disboscamento illegale, la fa da padrone, con un mercato stimato in $ 30-100 miliardi all’anno. E chi è che ne beneficia? Soprattutto l’Unione Europea: secondo uno studio del 2013 della Commissione Europea, l’Unione è stato il maggior responsabile di deforestazione fra il 1990 e il 2008 per la produzione di materie prime. Secondo l’organizzazione olandese FERN, parliamo soprattutto di olio di palma (18% del mercato internazionale), soia (25%), carni bovine (15%), pellame (31%) e altro ancora come mangimi e biocarburanti. Italia, Germania, Francia, Regno Unito e Olanda sono quelli che importano il 75% dei prodotti illegali che entrano in Europa e che ne consumano il 63%.

Viene spontaneo chiedersi, allora: ma quali sono i settori maggiormente coinvolti? E quali aziende li controllano? Domande non facili a cui rispondere, vista la poca trasparenza di queste aziende, la corruzione che dilaga nei Paesi fornitori e la falsificazione delle certificazioni. Però, per cercare di vederci un po' più chiaro, si potrebbero distinguere 4 grandi ambiti.

1) LEGNAME. Viene utilizzato nell’industria immobiliare e nell’edilizia, per la produzione di carta e imballaggi, o per farne biomassa da bruciare in impianti di riscaldamento o centrali elettriche. Secondo la PEFC, questo settore contribuisce per il 5% al disboscamento globale illegale. Dalle foreste tropicali arrivano fibre vegetali come rafia, bambù e rattan, o legni pregiati come teak, balsa, palissandro o mogano, il cosiddetto "oro verde" grazie al suo valore di ben 1600 $/m3.

Fra le aziende coinvolte spicca sicuramente “Essity”: controlla marchi come “TENA”, “Tempo” e “Nuvenia”, è il principale produttore in Europa di articoli come fazzoletti, carta igienica, asciugatutto o tovaglioli, e nel 2017 è stata accusata da “Greenpeace” di “fare rifornimento” in foreste boreali vetuste della Svezia. Oppure “Madeireira Iller Ltda”, che nel 2015 ha rifornito di legname illegale proveniente dall’Amazzonia 26 aziende, fra cui la portoghese “Global Gold Forest”, o l’italiana “Tropical Wood S.A.S.”. Il fatto che l’Italia l’abbia menzionata per la seconda volta in poche righe non è un caso, ma è perché il nostro Paese si può vantare di essere il terzo importare di legname a livello europeo (1.2 milioni di tonnellate dal Brasile nel 2017), legname che, secondo la PEFC, è illegale per il 10-20%

2) ESTRAZIONI MINERARIE. La più famosa fra le georisorse è sicuramente l’oro, che non viene usato solo in oreficeria, ma anche in componenti elettronici, in ambito medico e diagnostico, nella fotografia professionale, e perfino per realizzare i visori delle tute spaziali degli astronauti. Il ferro è invece quello più utilizzato, indispensabile per produrre acciaio e ghisa, fra i maggiori materiali da costruzione per automobili, scafi di navi ed edifici. Anche l’alluminio ha applicazioni molto ampie, come mezzi di trasporto, linee elettriche, attrezzi da cucina, elettrodomestici, lattine, pellicole e infissi. Molto vasto anche l’impiego del nichel, richiesto per produrre acciaio inossidabile, magneti, batterie ricaricabili, o monete. Insomma, in poche parole, compriamo uno smartphone, un rotolo di “carta stagnola” o un paio di pile e, senza saperlo, forse stiamo contribuendo ad abbattere foreste tropicali.
Miniera di Carajas, Parà, Brasile

Quello delle estrazioni, infatti, è un settore che incide sul disboscamento anche meno di quello del legname, ma che rimane comunque fra i più influenti. In Amazzonia, secondo uno studio dell’Università del Vermont, fra il 2005 e il 2015 le estrazioni di ferro e alluminio hanno inciso per il 10% della deforestazione totale. Le miniere si sono portate via 11.500 km2 di foresta, e il dato allarmante è che, a causa di corruzione e pessima legislazione, il 90% degli scavi è avvenuto in aree al di fuori delle concessioni governative, fino a 70 km oltre i confini definiti. In Perù, invece, il più grande esportatore al mondo di oro, fra il 2007 e il 2012 le estrazioni hanno comportato il taglio di 64.000 km2 di alberi nell’area di “Madre de Dios”. Fra il 1990 e il 1999, la copertura forestale delle Filippine è passata dal 70% al 18.3%; non solo a causa di estrazioni minerarie, che rendono la nazione il primo produttore mondiale di nichel, ma tanto hanno fatto che, nel 2017, il governo ha sospeso le concessioni a 30 aziende su 41 attive sul territorio.

E a proposito di colpevoli, solo fra quelle finite nel mirino del governo filippino, svettano grandi nomi del settore petrolifero come “BP”, “Royal Dutch Shell”, “Chevron”, “Total”, o “ExxonMobill”. Fra le società minerarie dure e pure, “Oceana Gold”, “Anglo American”, “Taiheiyo Cement”, “BHP Billiton” e “LafargeHolcim”, accusata nel 2017 di aver stretto accordi con il gruppo terroristico “Stato Islamico”. Oppure la brasiliana “Vale”, che opera nelle più grandi miniere di ferro al mondo nello stato del Parà, e che nel 2012 ha vinto il “Public Eye Award” come “peggior multinazionale al mondo”. Infine l’inglese “Rio Tinto”, più volte accusata di corruzione, violazione di diritti umani, disastro ambientale e inserita da “The Guardian” nella classifica dei 100 maggiori produttori di gas serra al mondo. 

3) ALLEVAMENTO. Quando in Italia si parla di “allevamenti intensivi” non è tanto chiaro cosa si intende, visto che qui (per fortuna) non abbiamo territori così vasti da ospitarne alcuni come quelli presenti in USA e Australia. Per farvi un’idea, quindi, pensate ad “Anna Creek”: è considerato il più grande allevamento al mondo, si trova nel Sud dell’Australia, ospita circa 18.000 capi di bestiame e copre 24.000 km2, in pratica un’area estesa come tutta la Sardegna. Per soddisfare la domanda (smodata) di carne dei Paesi occidentali sono questi i numeri richiesti, perciò è richiesto anche molto spazio, quello per ospitare gli animali, quello per farli pascolare (quando glielo permettono), e quello per produrre il mangime con cui nutrirli. E quale posto migliore delle sconfinate foreste tropicali per trovare questo spazio?

Il Brasile e l’Argentina sono oggi i due maggiori esportatori di carne per l’Europa, carne che viene destinata sia al settore alimentare che a quello conciario. Di tutti i Paesi europei, il massimo importatore per il Brasile è l’Italia che, come rivelato nel documentario “Deforestazione - made in Italy”, usa il 50% della carne importata per produrre la sua famosa “Bresaola della Valtellina – IGP”. Strettamente legate agli allevamenti, poi, sono le coltivazioni di soia, che per il suo elevato contenuto in proteine è usata al 90% per farne mangime per animali, il resto è per l’alimentazione umana o per cosmetici; e anche qui l’Italia copre una posizione di tutto rispetto, visto che è il primo importatore europeo per il Paraguay. Messi insieme allevamenti e piantagioni di soia, quindi, si stima che siano la causa dell’80% della deforestazione in questi Paesi.

E il merito a chi lo dobbiamo? Sicuramente alla brasiliana “JBS”, la più grande azienda al mondo di lavorazione della carne, che in tutta la sua storia ha sottratto 460.000 km2 alla Foresta Amazzonica. Oppure all’azienda agricola “Agronegócio Estrondo”, principale fornitore di soia per le americane “Cargill” e “Bunge”, che a loro volta riforniscono “Nestlé”, “Unilever” e “Kraft Heinz”, supermercati come “Carrefour”, “Tesco” e “Walmart”, e catene di fast food come “Mc Donald’s”, “Burger King” e “Starbucks”. Secondo l’organizzazione “Mighty Earth”, i 7000 km2 andati persi fra 2011 e 2015 nell’area del Cerrado brasiliano (la più ricca di biodiversità al mondo) sono da mettere proprio sul conto di “Cargill” e “Bunge”. 

4) AGRICOLTURA. Altro grande movente di deforestazione è quello di far spazio a coltivazioni industriali, in certi casi fatte a loro volta di altri alberi. Se a questo aggiungiamo pascoli e recinzioni per animali di cui ho detto sopra, agricoltura e allevamento rispondo per l’80% della deforestazione mondiale. E quali sono le coltivazioni in questione?
Piantagione di alberi da gomma

Sicuramente quelle di gomma naturale (o caucciù): viene estratta da oltre 300 piante, ma il 90% della produzione industriale deriva dalla Hevea brasiliensis, una pianta che è originaria del Parà, ma che, a causa di predatori naturali, nei fatti viene coltivata in Malaysia, Indonesia, Thailandia, Sri Lanka, India, Liberia e Nigeria, che sono i maggiori produttori. Insieme alla gomma sintetica, che però è un derivato del petrolio, viene usata per realizzare guarnizioni, gonfiabili, suole per scarpe, rivestimenti elettrici, adesivi, guanti, tessuti impermeabili, e soprattutto pneumatici, che coprono il 60% della produzione. In Cambogia, fra 2009 e 2013, le coltivazioni hanno tagliato via 525 km2, pari a Torino, Milano, Firenze e Napoli sommate. In Congo, gomma e olio di palma sono i principali responsabili dei 13.000 km2 disboscati dal 2003 fino ad oggi, molti dei quali messi sul conto della “Halcyon Agri Corp”, maggior produttore al mondo. Fra Africa e Sud-Est asiatico, infine, la lussemburghese “Socfin” controlla già 1850 km2 di piantagioni di gomma e palme da olio, ma le sue concessioni ammontano a 3250 km2, perciò si teme un rincaro nella deforestazione nei prossimi anni.

Se vi piacciono i “Ferrero Rocher” e la “Nutella”, i “Baci” e gli “Smarties”, o il “Mars” e le “M&M’s”, forse vi interesserà sapere anche che il cacao con cui sono prodotti è molto più “amaro” di quello che vi dice il vostro palato. Il Ghana e la Costa d’Avorio sono oggi i maggiori produttori mondiali di cacao ma, come denunciato nel 2017 dall’organizzazione “Mighty Earth”, il 90% del territorio di aree protette e parchi naturali è stato convertito in piantagioni di fave. Nella Costa d’Avorio il caso più drammatico: solo fra novembre 2017 e settembre 2018, è stata abbattuta un’area grande come 19.000 campi da calcio (13.748 ettari); non per niente, oggi, nel Paese sopravvive appena il 4% delle foreste naturali. I principali responsabili dello scempio sarebbero “Cargill”, “Olam” e “Barry Callebaut”, le aziende che controllano quasi metà del mercato mondiale di cacao, e che riforniscono marchi come “Ferrero”, “Nestlé”, “Mars”, “Mondelez”, “Lindt”, “Hershey’s” o “Godiva”. 

E infine, come fare a non menzionare il contestatissimo olio di palma? È un olio vegetale estratto dai frutti e dai semi delle palme da olio, soprattutto dall’africana Elaeis guineensis, ma anche dalle sudamericane Elaeis oleifera e Attalea maripa. Grazie alle sue caratteristiche e alle sue rese fino a 10 volte superiori a quelle di altri oli vegetali (e quindi grazie ai suoi bassi costi), lo si può trovare veramente dappertutto, come in dolci, prodotti da forno, creme, bagnoschiuma, detergenti, emollienti, oli di cottura, maionese, burro, patatine, cibo per animali e perfino in biocarburanti come i biodiesel. Oggi viene prodotto soprattutto in Indonesia, Malaysia, Nigeria, Thailandia, Equador e Colombia, mentre India, Unione Europea e Cina sono i tre maggiori importatori (e l’Italia è il 3° importatore per la UE).

I motivi per cui è tanto discusso sono vari, ma la deforestazione che causa è appunto il principale. La società “Wilmar”, il più grande produttore al mondo e fornitore di marchi come “Nestlé”, “McDonald’s”, “PepsiCo”, “P&G”, “Mondelez”, “Unilever” e “Kellogg’s”, è responsabile di 1400 km2 deforestati in Indonesia fra 2015 e 2018. Nello stesso periodo e nello stesso Paese, “Unilever” da sola (quella che commercia prodotti come “Lipton”, “Algida” e “Knorr”), si è rifornita da produttori che hanno abbattuto 1800 km2. Tra 2015 e 2017, 22 fornitori di “Mondelez”, l’azienda che distribuisce patatine come “Cipster” e “Fonzies”, crackers come “Ritz” e “Tuc”, e biscotti come “Oreo”, hanno distrutto in Indonesia un’area grande come 7 volte Parigi per far spazio a palme da olio.

ALTRE CAUSE. Di grandi cause di deforestazione ne esistono almeno altre tre, ma visto che quelle dette fino ad ora contribuiscono per circa il 90%, capite bene che il contributo rimanente è di appena il 10%. L’aumento della popolazione e quindi l’urbanizzazione, per esempio, è di sicuro un’altra causa ma, secondo il “Global Forest Watch”, pesa giusto per lo 0,6%. Molte popolazioni indigene che praticano l’agricoltura tradizionale fanno uso del debbio, che consiste nell’incendiare vegetazione o vecchie colture con il duplice scopo di far spazio a coltivazioni e fertilizzare il terreno, ma le accuse nei suoi confronti sono infondate: il suo contributo è minimo, e alla terra viene lasciato il tempo di rigenerare la foresta dopo la raccolta. Infine, il caso degli incendi spontanei: la combinazione fra vegetazione secca e clima arido in aree tropicali, o fra torbiere e temperature elevate in aree boreali, possono innescare fermentazioni della materia organica, quindi un aumento della sua temperatura e la formazione di composti facilmente infiammabili come alcol etilico o acetoneBasta quindi un fulmine per far scoppiare un incendio, o anche soltanto delle temperature un po' più elevate del solito.

Gli effetti della deforestazione


Fra globali e locali, sono tutti colossali



ESTINZIONI. Le foreste ospitano l’80% delle specie viventi sulla Terra: l’80% degli anfibi, il 75% degli uccelli e il 68% dei mammiferi, per sopravvivere, dipendono dalle folte chiome degli alberi, dai loro frutti, dal sottobosco. Le foreste tropicali in particolare, anche se coprono il 7% della superficie del pianeta, ospitano oltre la metà delle specie fra piante e animali: un caso per tutti è la Foresta Amazzonica, che è la casa di 2500 specie di alberi, in pratica 1/3 di quelle esistenti. Tra l’altro, l’altezza degli alberi e le loro fronde offrono rifugio e riparo da calore, precipitazioni intense e venti violenti. Abbattere le foreste, quindi, significa portare all’estinzione gran parte delle specie viventi. Per fare qualche esempio, gli oranghi del Borneo si sono dimezzati in appena 16 anni fra il 2001 e il 2017. In Costa d’Avorio rimangono circa 200-400 elefanti delle migliaia che c’erano solo nel secolo scorso. Nella regione argentina del Gran Chaco, si pensa che siano rimasti meno di 20 esemplari di giaguaro.

CARENZA DI RISORSE. Dire “foreste” vuol dire anche legname, frutti, radici, erbe, acqua e animali. Tutto ciò, secondo la FAO, fa da sostentamento a 1 miliardo di persone nel mondo, e fa da vera e propria casa per circa 300 milioni, cioè 2000 popolazioni indigene. Quanto al resto della Terra, sappiate che 1/3 del cibo che mangiamo esiste grazie all’azione degli insetti impollinatori, insetti che vivono dei fiori che sbocciano nelle foreste; i 3/4 dell’acqua dolce che beviamo, inoltre, deriva da zone umide boscose e bacini idrografici alimentati dalle foreste. Questo è un altro dei motivi per cui l’olio di palma è tanto contestato: mescolare carburanti con il 10% di biocarburanti (ricavati da palma, mais, grano, ecc…), significa ridurre del 26% le terre arabili che si potrebbero destinare alla produzione alimentare; solo nel 2008, se le coltivazioni che hanno prodotto biocarburanti fossero state usate per produrre cibo, avremmo impedito che 127 milioni di persone soffrissero la fame. Perciò non solo si abbattono foreste per creare coltivazioni, ma parte di queste non serve nemmeno per produrre alimenti, quindi doppia perdita di risorse.

Frana causata dall'urgano Mitch sul vulcano
 Casita, Hounduras (da "hurricanscience.org")
DISASTRI AMBIENTALI. Anche soltanto grazie a rami, foglie e frutti caduti a terra, le foreste creano un “letto” di materia organica che trattiene l’acqua e rinnova la fertilità del suolo, impedendo che inaridisca. Tramite foglie, rami, tronchi, e tramite radici che assorbono acqua e compattano il terreno, 1 ettaro di foresta intercetta 3 volte più pioggia di un pascolo e 10 volte più di un campo di soia, quindi meno acqua colpisce e defluisce sul terreno, il che significa meno erosione del suolo e meno acqua che va ad ingrossare i fiumi, perciò si scongiurano disastri come frane e inondazioni. Parte dell’acqua che le piante assorbono, poi, viene riemessa sottoforma di vapore: solo la Foresta Amazzonica ne emette 8000 miliardi t/anno, vapore che va a formare le nubi, da cui precipitazioni che pesano per il 15-20% di tutta l’acqua dolce che finisce ogni anno nell’Oceano Atlantico. E quest’acqua alimenta le Correnti Oceaniche, che influenzano il clima di tutto il pianeta.

Se dunque le foreste vengono abbattute, tutto questo meccanismo viene meno. E gli effetti si vedono già. Nel Centro America, le montagne deforestate non riuscirono a contenere le potenti precipitazioni dell’uragano Mitch del 1998, e questo portò a frane e inondazioni che uccisero 18.000 persone. La Foresta Amazzonica ha già conosciuto due siccità in un secolo, nel 2005 e nel 2010, e infatti la città di São Paulo non ha visto cadere una goccia di pioggia per 3-4 mesi fra dicembre 2013 e marzo 2014 (e quello sarebbe il periodo delle piogge). Globalmente, solo nel 2013 si sono registrati 330 disastri ambientali, da cui 22.600 vittime e 22 milioni di sfollati.

CAMBIAMENTO CLIMATICO. Che le piante assorbono CO2 per poi rilasciare ossigeno (O2) ormai lo sanno anche i sassi, ma a quanto corrisponde questo contributo? Solamente le foreste tropicali (45% del totale) producono il 25-30% dell’ossigeno che respiriamo, mentre le foreste del mondo assorbono 1/3 del CO2 prodotto ogni anno dalla combustione di gas, petrolio e carbone. Ecco perché si dice che la deforestazione incide per il 12-20% delle emissioni di gas serra: ci incide direttamente, perché l’incendio di foreste e la decomposizione del legno produce CO2, e anche indirettamente, perché meno alberi significa meno CO2 assorbito.

Detto questo, secondo la FAOdal 1990 al 2020 le foreste riescono ad assorbire 9 miliardi di t di CO2 in meno, che è come dire 1/4 di quelle emesse nel mondo in un solo anno. Se tutte le foreste tropicali fossero abbattute, la temperatura globale aumenterebbe di 0.7 °C, ma vi ricordo che bisogna impedire un aumento di 1.5 °C entro il 2030 per evitare il disastro climatico. Se sentire dire che sostituire un nuovo albero con uno appena tagliato compensa il danno, diffidatene subito, perché un giovane albero piantato oggi al posto di uno maturo appena rimosso, impiegherebbe circa un secolo per assorbire tutto il CO2 raccolto da quello abbattuto ed emesso in atmosfera se il suo legno viene bruciato. E non è assolutamente vero che le coltivazioni assorbono tanto CO2 quanto le foreste, perché anche nell’ipotesi di coltivazioni stabili, ogni albero ha capacità diverse di assorbimento.

INCENDI. Il taglio di alberi causa incendi? Non dovrebbe essere al contrario? Giusto, infatti poco sopra ho indicato gli incendi come causa di deforestazione. Eppure, anche se sembrerà incredibile, sono anche una conseguenza. Come ho detto prima, di incendi ne esistono anche di naturali, e basta appunto un fulmine o temperature un po' più elevate a incendiare sostanze naturali facilmente infiammabili; ma dato che, come ho spiegato fino ad ora, la deforestazione incide sul cambiamento del clima, significa che causa anche episodi di siccità e temperature insolitamente alte, e anche fenomeni temporaleschi più violenti fatti di scariche elettriche più frequenti. Perciò si può dire proprio così: il taglio sconsiderato di alberi incide sul clima, il quale scatena degli incendi che “tagliano” altri alberi ancora. Vedi il caso dei Territori del Nord Ovest in Canada nel 2014, con 35.000 km2 bruciati in gran parte da un insolito numero di fulmini abbattuto sulla regione. Oppure il caso della Svezia nel 2018, con 250 km2 andati in fumo nel periodo più caldo che lo Stato abbia mai visto nella sua storia.

Capo Mbya Guarani, Sao Paulo, Brasile
(da "flikr.com")
CRIMINI CONTRO L’UMANITA’. Quelle 2000 popolazioni indigene che ho menzionato prima vengono continuamente ingannate, minacciate o perfino uccise da aziende senza scrupoli che rapinano le loro terre di origine. In Liberia, la “Golden Veroleum” e la “Sime Darby”, industrie dell’olio di palma, con la corruzione hanno ottenuto concessioni illegali e hanno cacciato indigeni; dopo le proteste hanno promesso di distribuire cibo ai membri più anziani dei villaggi colpiti e di assumere abitanti, ma nessuna promessa è stata mantenuta, e intanto la deforestazione continua. Nel maggio 2019, “Greenpeace – Brasile” ha documentato raid armati contro i geraizeiros del Cerrado, con tanto di minacce e violenze da parte della sicurezza privata della “Agronegócio Estrondo”. In Argentina, a febbraio 2020 ci sono stati scontri fra boscaioli e indigeni Mbya Guaranì, ma già nel maggio successivo la “Empresa Carba” ha ricominciato a caricare i suoi bulldozer contro la foresta, con tanto di permessi del governo.

E tanto per mettere la ciliegina sulla torta, aggiungiamoci anche lo sfruttamento di popolazioni locali e di migranti clandestini. La maggior parte della produzione che deriva da coltivazioni intensive è destinata all’estero, non al Paese d’origine, e così ecco che il Paraguay, anche se è fra i maggiori fornitori al mondo di mangimi per animali, ha un tasso di malnutrizione superiore al 22%, doppio rispetto al 2004. In Costa d’Avorio, l’associazione “Mighty Earth” ha denunciato nel 2017 casi di sfruttamento del lavoro (con paghe di 0,80 cent al giorno) e di lavoro minorile nelle coltivazioni di cacao, controllare da fornitori di “Mondelez”, “Mars”, “Nestlé”, “Lindt” e “Ferrero”. Caso più esemplare, quello delle piantagioni di olio di palma in Malaysia: un’inchiesta del 2015 del “Wall Street Journal” ha rivelato casi di clandestini uccisi per sfinimento, malattie o percosse, obbligati a spruzzare pesticidi altamente tossici come il paraquat senza formazione e senza mezzi di sicurezza, e costretti ai lavori fino a quando le loro famiglie non avessero pagato un riscatto. Il tutto nelle piantagioni della “Felda Global Ventures”, altro fornitore dell’americana “Cargill”, che ha fra i suoi clienti “P&G” e “Nestlé”.

DANNI ECONOMICI. Sono il male minore, se paragonati agli altri, ma è bene sapere che ci sono anche questi. E non parlo dei danni causati dall’abbattimento di alberi in sé (che ammontano a miliardi), ma anche di altri: ottenere legnale illegalmente significa immetterne nel mercato grandi quantità, il che vuol dire che il suo costo diminuisce, ma vuol dire anche che ne viene penalizzato il legnale legale, che avendo costi più alti diventa meno competitivo. Questo è un problema molto sentito in Africa centrale: la necessità di ottenere una valuta forte rende molto facile la corruzione e la cessione di concessioni illegali, il commercio sregolato prolifica, e così le aziende del settore sono più restie ad adottare certificazioni tipo la “FSC”, perché più costose a breve termine. 

Il caso COVID-19: il colpo di coda dei disboscamenti illegali

Come ho accennato prima, le foreste sono la casa per l’80% delle specie che vivono sul nostro pianeta, e fra queste non ci sono soltanto piante e animali, ma anche funghi, batteri e virus. Fino a che le foreste si mantengono intatte, due effetti contribuiscono a fare di essere dei veri e propri “antivirali naturali”, cioè l’effetto diluizione e l’effetto coevoluzione. Con il primo, si intende che quando un habitat è ricco di specie diverse, è più difficile per un patogeno diffondersi e moltiplicarsi, perché è più probabile che capiti su una specie a lui resistente, che quindi fa da “trappola ecologica”; con il secondo, invece, si intende che finché un habitat si mantiene integro, non frammentato, le varie specie possono spaziare su ampi areali, il che riduce i contatti fra loro e quindi anche il salto di virus fra una specie e l’altra.

Ma oggi l’uomo è già arrivato a modificare pesantemente il 75% dell’ambiente terrestre e il 66% di quello marino. La distruzione degli habitat causa estinzioni, quindi una minore diversità di specie; e ne riduce anche l’estensione, costringendo le poche rimaste ad ammassarsi in spazi sempre più stretti, oppure a migrare in zone mai abitate prima. Tutto questo, allora, aumenta la probabilità che un virus trovi un ospite favorevole, cosa che gli consente di diffondersi e di sviluppare nuovi ceppi (come il SARS-CoV-2); senza contare che meno vegetazione significa meno acqua assorbita, quindi più acqua stagnante, che è l’ambiente ideale per far proliferare larve di zanzare che fanno da vettore per questi virus.

Quello della COVID-19 non è il primo “effetto boomerang” che subisce l’umanità a causa della sua arroganza. Le prime zoonosi, cioè malattie trasmesse all’uomo da altre animali, si sono innescate oltre 10.000 anni fa, quando l’uomo è passato da cacciatore-raccoglitore ad agricoltore-allevatore: si pensa che siano state le prime invasioni di habitat e i primi contatti continuativi con animali domestici a far insorgere pertosse, tubercolosi, malaria o vaiolo. Ma oggi le zoonosi rappresentano il 75% delle malattie umane, e se i numeri sono questi le ragioni sono varie: la povertà che spinge a inoltrarsi nelle foreste alla ricerca di cibo; il bracconaggio e i mercati illegali di fauna selvatica; le pratiche intensive di agricoltura e allevamento che attirano animali portatori nelle piantagioni, o che portano il bestiame a contatto con il selvatico; i cambiamenti del clima che estendono gli areali di specie vettore come zecche e zanzare; lo spreco di acqua e l’abuso di fitofarmaci in agricoltura che moltiplicano specie portatrici e fanno sviluppare in loro resistenza ai pesticidi.

Nel frattempo, in 50 anni la popolazione umana è raddoppiata e con essa la sua densità all’interno delle città. Viviamo in ambienti sempre più “asettici”, poveri di piante e animali, e l’uso sconsiderato di antibiotici e vaccini crea sempre più patogeni resistenti. Il mondo globalizzato consente il viaggio di cose e persone in quantità e velocità mai viste prima, e l’inquinamento di aria e acqua fa dilagare malattie croniche fra centinaia di milioni di persone. Messo insieme tutto questo, ecco malaria, schistosomiasi, dengue e morbo di Lyme che provocano fino a 350 milioni di nuovi casi ogni anno; ed ecco Ebola (1979 e 2014), HIV-1 E HIV-2 (1983-1986), West Nile (1999), SARS (2002), H5N1 (2003), H1N1 (2009), MERS (2012), H7N9 (2013) e Zika (2014) che hanno già fatto circa 40 milioni di vittime. Il SARS-CoV-2 è soltanto l’ultimo arrivato, e se ha potuto nascere e diffondersi come ha fatto, i motivi sono proprio questi, gli stessi dei suoi predecessori. Soltanto, questa volta “Madre Natura” ha deciso di farsi sentire con la voce un po' più grossa

Le soluzioni esistono, ma è importante distinguere fra quelle false e quelle vere


Quelle false

SOSTITUIRE L’OLIO DI PALMA. C’è chi addita l’olio di palma come la peggior causa di deforestazione, e per questo consiglia di acquistare solo dai fornitori che hanno la certificazione RSPO (Roundtable on Sustainable Palm Oil), oppure propone di sostituirlo con altri oli vegetali tipo quello di cocco, soia o colza. Ma come sottolineato dalla IUCN (International Union for the Conservation of Nature) nel 2018, altri oli hanno rese fino a 10 volte più basse, per cui richiederebbero coltivazioni più ampie, e quindi una maggior deforestazione. Inoltre, la certificazione RSPO istituita nel 2004 si è rivelata un fiasco colossale: pensata con lo scopo di garantire un olio di palma da coltivazioni sostenibili, nei fatti copre il 20% della produzione totale; consente lo sfruttamento di torbiere e non richiede riduzioni di gas serra; ne fanno parte tante aziende che ho già menzionato, tipo “Unilever”, “Wilmar”, “Kellogg’s”, “Nestlé”, “P&G”, “Colgate-Palmolive”, “Sime Darby” e “Golden Veroleum”, ma come ho detto sono già state collegate a deforestazione, sfruttamento del lavoro e sfratto di popolazioni indigene. Il problema, quindi, non è l’olio di palma in sé, ma i modi in cui viene coltivato.

PESTIDICI CONTRO LE MALATTIE. Per contrastare la diffusione di malattie come Zika e malaria, qualche “furbo del villaggio” ha pensato bene di ricorrere a pesticidi come il DDT per sterminare i loro vettori, cioè le zanzare. Ma rispondere in questo modo non solo significa agire sul sintomo piuttosto che sulla causa, ma significa anche farlo causando ancora più danni: si uccidono altri animali tipo le api, si favorisce lo sviluppo di resistenze ai pesticidi, e si compromette ancora di più la salute di ambiente e persone (il DDT è cancerogeno, interferente ormonale, bioaccumulante, e può persistere nell’ambiente fino a 30 anni).

TAGLIAMO DA UN’ALTRA PARTE! Tagliare alberi in altre parti del mondo, secondo alcuni, allenterebbe la pressione sulle foreste più colpite, e in più preverrebbe il rischio di incendi. Si tratta di affermazioni fatte da emeriti professori italiani e che, in realtà, nascondono gli interessi dell’industria del legno e giocano sull’ignoranza della gente. Dalle foreste tropicali arrivano legni di alto pregio usati nell’edilizia e nell’immobiliare, non per farne legna da ardere, che è invece il principale scopo dei tagli nelle foreste italiane. E poi, i boschi fatti di piante mature resistono molto più facilmente agli incendi, soprattutto se conservano il sottobosco, che mantiene l’umidità anche nei periodi asciutti.

PRIVATIZZARE LA NATURA. Nel 2013, ad Edimburgo, si è riunito un forum di aziende come “RBS”, “Coca Cola”, “Rio Tinto” e “KPMG”: per salvaguardare l’ambiente, la loro proposta è stata quella di assegnare un valore finanziario a beni naturali come acqua, terre e foreste. In Brasile, multinazionali sia estere che locali privatizzano le fonti d’acqua e spingono al consumo di acqua in bottiglia, recintano le terre e promuovono l’utilizzo di semi in bustina in agricoltura. Tutte tattiche molto subdole che vengono sponsorizzate come ecologiche, ma che hanno un unico vero scopo: mettere il cartello “proprietà privata” anche su quello che, per definizione, non è la proprietà di nessuno, cioè la natura.

Quelle vere

RIFORESTAZIONE. Secondo le stime della IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change), fra terreni liberi e danneggiati, sulla Terra ci sarebbe spazio sufficiente per ricoprire di foreste 10 milioni km2, che riuscirebbero ad assorbire i 2/3 delle emissioni di CO2 generate dall’Ottocento fino ad oggi. Ovviamente tutto questo avrebbe un costo, che si aggira attorno ai $ 300 miliardi, e ogni habitat andrebbe riforestato con piante autoctone, non con le stesse specie. Ma non è una sfida impossibile: Irlanda e Australia hanno già in programma di piantare circa 1 miliardo di alberi entro il 2040 e il 2050; la Cina ne ha già piantati 2.8 miliardi; nel mondo, ad agosto 2018, siamo arrivati a 15.2 miliardi piantati in 193 Paesi. Con una strategia internazionale sarebbe più che possibile, soprattutto se si coinvolgessero anche le popolazioni locali.

ONE HEALTH. “One Health” è il nome di un approccio internazionale, già riconosciuto da tante ONG, da Istituti di Ricerca, e da organi delle Nazioni Unite come UNEP, UNDP, OMS, FAO e OIE. Un approccio che riconosce la necessità di coinvolgere e far cooperare non solo tanti Paesi, ma anche tante figure, come sociologi, ecologi, medici, economisti e giuristi in modo da raggiungere un obbiettivo comune: quello della salute e della sopravvivenza della vita sulla Terra, la nostra compresa. E questo perché parte da una consapevolezza di fondo: che la realtà è olistica, cioè che tutto è connesso, e che quindi la salute dell’ambiente e quella dell’uomo non sono due cose separate, ma la stessa identica.

SPESA CONSAPEVOLE. Come avrete capito, la principale minaccia per le nostre foreste è rappresentata dalla nostra fame, per cui nel momento in cui mangiamo, e ancor prima quando acquistiamo, possiamo fare una differenza enorme. Scegliere prodotti biologici ed ecologici, preferire quelli di stagione e di provenienza locale, diffidare dei prezzi troppo bassi che si trovano nei discount. Ognuno di noi pensa di essere solo un “comune cittadino”, ma non si rende conto che ha fra le mani uno dei poteri più grandi, cioè il “potere d’acquisto”: con questi semplici accorgimenti, noi possiamo finanziare i modelli produttivi che rispettano la vita di tutti e far fallire quelli che la minacciano

Non è il bosco che ha bisogno dell’uomo, è l’uomo che ha bisogno del bosco

È da quando sono alto come un arbusto che sento ripetere che “I boschi hanno bisogno di manutenzione”. Da piccolo ci credevo e basta, in fondo erano pur sempre le parole dei “grandi”. Crescendo, poi, e diventando sempre più informato sull’argomento, ho cominciato a capire che questo discorso non aveva tanto senso, visto che le foreste esistono da molto più tempo di noi esseri umani. Nel frattempo, ho anche iniziato ad entrare io stesso fra la “schiera dei grandi”, eppure mi sono accorto che nulla era cambiato, che qualcuno di loro continuava a ripeterlo: i boschi hanno bisogno di manutenzione. Perfino in televisione lo dicono, come accaduto lo scorso aprile in un servizio del TG1: per colpa della quarantena, i boschi sono rimasti per troppo tempo senza manutenzione, e se non c’è l’uomo che pensa a tagliare gli alberi più vecchi di tanto in tanto, c’è il rischio che qui secca tutto.

Oggi, finalmente, posso controbattere: non è il bosco che ha bisogno dell’uomo, è l’uomo che ha bisogno del bosco. Se non vi fosse bastato tutto quello che ho detto fino ad ora, vorrei ricordare a tutti che le prime foreste sono comparse su questo pianeta 385 milioni di anni fa, mentre la nostra specie ci cammina sopra da appena 300.000; c’è quindi un buco di 385.700.000 anni in cui le foreste sono cresciute senza nemmeno sapere che cosa fosse un “essere umano”. Se quindi ancora oggi c’è qualcuno che si ostina a dire che hanno bisogno di noi, o è più ignorante di un Australopiteco, o pensa che gli ignoranti siamo noi: l’unico “bisogno” che c’è da queste parti, è quello dei portafogli dell’industria del legno.

Prima della rivoluzione agricola di 10.000 anni fa, si stima che ci fossero 6000 miliardi di alberi a sfidare le vette del cielo, mentre oggi ne rimangono 3000 miliardi, la metà. Secondo la FAO il tasso di deforestazione è diminuito, da 78.000 km2/anno nel decennio 1990-2000, a 47.000 km2 in quello 2010-2020; il che ci fa piacere, ma non c’è proprio nulla da festeggiare: continuando a questi ritmi, al 2030 potrebbero rimanere solo il 10% delle foreste tropicali; solo la Foresta Amazzonica ha perso il 17% della sua copertura, e basterebbe arrivare al 25% perché le sue funzioni ecologiche non riescano più a compensare il taglio. Perciò, per tirare fuori una massima di Confucio che calza proprio a pennello, “Il momento migliore per piantare un albero è vent’anni fa, il secondo momento migliore è oggi”.

Un approccio come “One Health” fa molto ben sperare, anche se, come al solito, la cultura occidentale “arriva dopo i fuochi”. C’è stato bisogno della scienza, dei numeri, del quantificabile, e soprattutto dei danni, prima di capire che l’uomo e il resto del mondo sono un tutt’uno, l’intuito e le evidenze millenarie delle altre culture non erano sufficienti a farlo accettare. La crisi da pandemia che stiamo vivendo in questi mesi deve essere l’occasione per capire che la natura non è un balocchino nelle nostre mani, con cui possiamo fare quello che ci pare, e non è nemmeno un mostro irascibile da temere: la natura siamo noi, e se per millenni abbiamo vissuto come parassiti, ora è il momento di diventare commensali.

Manteniamo le foreste, e loro manterranno per noi un futuro più libero da ospedali, vaccini sempre più potenti e disinfettanti sempre più tossici. Lasciamogli la possibilità di esistere, e loro la lasceranno a noi


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