giovedì 10 novembre 2022

Le estinzioni sono reali, ma le soluzioni sono "banali"

Numeri, esempi, cause ed effetti della perdita di biodiversità: la nostra consapevolezza può invertire la rotta

Specie minacciata. Specie in pericolo. Specie a rischio di estinzione. Sono espressioni che si sentono talmente tanto spesso, ormai, che pare quasi che sulla Terra non rimarrà un’anima vivente da qui ai prossimi 10 anni al massimo. Ma poi passano quei 10 anni e si sente dire che quella specie in pericolo è ancora in pericolo, si scopre che una di quelle a rischio prolifera in qualche parco, ci si guarda intorno e pare che non sia cambiato proprio nulla nel mondo. E allora si comincia a domandarsi: ma non è che sono tutte balle?

Se siete arrivati a questo punto, forse è giunto il momento di prendervi un attimo e cercare di vederci un po' più chiaro sulla faccenda. Che significa “specie a rischio di estinzione”, e quali sono queste specie? Il fenomeno di oggi è simile a tanti altri del passato o ha qualcosa di particolare? E se ce l’ha, quali sono le cause e le conseguenze? Ma soprattutto: se è reale, ce ne dovrebbe fregare qualcosa? E se sì, siamo condannati o esistono soluzioni?

La verità è duplice. La vita è un sistema interconnesso, dove nessuno, uomo o altro essere vivente, può fare a meno dell’altro senza perdere qualcosa. E le soluzioni non solo esistono, ma basta un piccolo impegno quotidiano da parte di tutti per metterle in pratica.

Siete sicuri di sapere cosa significa “estinto”?

Potrebbe sembrare un concetto scontato: se si dice che una specie è estinta, significa che ogni suo esemplare è scomparso totalmente dalla faccia della Terra. Poi, però, si sente dire che qualche individuo esiste ancora, che alcuni sono negli zoo, o che uno ancora in vita è stato filmato in qualche posto sperduto, e allora si comincia a sbraitare che quello delle estinzioni è tutto allarmismo e catastrofismo.

Ma, se questo succede, gran parte della colpa sta nelle persone che fanno informazione e che la fanno male. Perché, quando si parla di “rischio di estinzione”, in realtà c’è da distinguere fra almeno 4 scenari diversi.

1. Estinto. L’unico vero caso in cui si intende che, di una certa specie, non rimane più in vita neanche un esemplare. Per esempio il bilby minore, il pipistrello dell’Isola di Natale, la volpe volante di Guam, il leone marino giapponese, la tigre di Giava, lo stambecco dei Pirenei, o il rinoceronte nero occidentale.

2.Localmente estinto. La specie è completamente estinta in un certo habitat, ma in altri sopravvive ancora. Vedi il caso di orso Grizzly, coccodrillo marino, Acestrorhynchus lacustris, o pika americano.

3.Estinto nel selvatico. Una certa specie è del tutto estinta in natura, gli unici esemplari che sopravvivono sono in cattività, all’interno di parchi, zoo o riserve. Per esempio l’orice dalle corna a sciabola, il rallo di Guam, la sequoia di Sant'Elena, la Brugmansia vulcanicola, il Encephalartos woodii, o il Bromus interruptus.

4.Funzionalmente estinto. Di quella specie rimangono talmente pochi esemplari che non svolge più un ruolo significativo nell’ecosistema, non ci sono esemplari capaci di riprodursi, oppure si potrebbe riprodurre ma non sarebbe capace di autosostenersi. È il caso di lipote, tigre della Cina meridionale, o rinoceronte bianco settentrionale.

Ovviamente, il mondo è grande e in gran parte ancora inesplorato, perciò è difficile dire col 100% di sicurezza se e quando una specie è totalmente scomparsa. Ecco perché, a volte, ci si imbatte nei “Lazarus Taxa”, cioè degli esemplari di specie fino a quel momento ritenute estinte, come nel caso del calice di Nettuno, il colobo rosso di Bouvier, il beccolargo verde, o il boa dell’albero di Cropani.

D’altra parte, questo non significa che i dati sulle estinzioni siano dei numeri pescati al Lotto. Se gli avvistamenti di una specie si riducono fino ad azzerarsi, e/o se si notano dei cambiamenti nell’ecosistema spiegabili soltanto col venir meno delle azioni di quella specifica specie, si può essere piuttosto sicuri che, come minimo, è estinta localmente o funzionalmente.

Fra conservazione ed estinzione: qual è la situazione delle specie nel mondo?

Quante sono le specie a rischio e che cosa significa

La IUCN (International Union for Conservation of Nature) è la principale organizzazione che si occupa di valutare lo stato di conservazione delle specie. Anche qui, l’informazione in proposito spesso fa acqua da tutte le parti, e questo genera molta confusione nel pubblico: quando si dice che una specie è “a rischio”, cosa si intende? E quanto è a rischio? Perciò, vediamo di spendere qualche parola in più, ma di spiegarlo una volta per tutte.

La IUCN suddivide tutte le specie che analizza in 9 classi, che descrivono in quale stato di conservazione si trovano. Abbiamo quindi EX = estinto, EW = estinto nel selvatico, CR = in pericolo critico, EN = in pericolo, VU = vulnerabile, NT = quasi minacciata, LC = minor preoccupazione, DD = carente di dati e NE = non valutata. Una specie, allora, viene considerata “minacciata”, “a rischio di estinzione”, “in pericolo”, o qualsiasi altro sinonimo vogliate, se ricade nelle classi CR, EN o VU. E queste classi cosa significano? Per esempio, dire che una specie è “in pericolo critico” significa che ha una probabilità di oltre il 50% di estinguersi nell’arco di 10 anni/3 generazioni; dire “in pericolo” significa di più del 20% in 20 anni/5 generazioni; “vulnerabile” vuol dire più del 10% nell’arco di 100 anni.

Inoltre, ricordiamoci che tutte le specie viventi si possono suddividere secondo 6 Regni (7 se si considerano i Virus), cioè Animali, Piante, Funghi, Protisti, Eubatteri e Archeobatteri. E anche che, secondo le stime della IPBES (Intergovernmental Science-Policy Platform on Biodiversity and Ecosystem Services), noi umani conosciamo circa 2 milioni di specie, ma in natura è possibile che ne esistano più o meno 8 milioni.

Detto questo, ad oggi (novembre 2022) la IUCN ha analizzato nel dettaglio lo stato di 147.517 specie. Secondo gli studi, 36.264 hanno popolazioni stabili, 1274 popolazioni in aumento, e 33.777 in diminuzione; fra tutte, oltre 41.000 sarebbero quelle da considerare minacciate (cioè rientrano nelle categorie CR, EN o VU). Fra gli Animali, il 41% degli anfibi, 27% dei mammiferi, 13% degli uccelli, 37% degli squali e delle razze, 33% dei coralli di barriera, 28% dei crostacei, e il 21% dei rettili. Fra le Piante, il 69% delle cicadi e il 34% delle conifere.

Basandosi su questi dati, comunque, la IPBES stima che sarebbero circa 1 milione quelle da considerare a rischio. E il motivo è semplice: poiché 8 milioni sono quelle esistenti, il 75% di queste sono insetti e, in media, è considerato a rischio il 10% degli insetti (550.000) e il 25% di tutte le altre (625.000), si arriva a stimare una cifra di appunto 1 milione di specie. Si dirà che in questi 8 milioni sono considerate anche quelle sconosciute, ma infatti è giusto includerle nella stima: quelle ancora sconosciute, se lo sono, probabilmente è perché hanno popolazioni poco numerose e/o habitat ristretti; perciò, anche se ancora non si conoscono, è molto probabile che proprio per questi motivi siano vulnerabili anche loro.

Esempi di Animali, Piante, Funghi

Capite bene che i numeri sono troppo grandi per mettersi a fare un elenco completo in un semplice articolo. Però qualche esempio lo possiamo fare.

Fra gli Animali che rientrano nelle tre categorie IUCN considerate “minacciate”, ci sono avvoltoi, balenottera comune, squali, delfini, elefanti, foca monaca, ghepardo, gorilla, giraffa, koala, leone, leopardo delle nevi, lontra, orango, orso bruno, orso polare, panda, impollinatori, tartaruga marina comune, tigre e tonno rosso.

Dato che noi per primi siamo animali, tendiamo a essere spesso animalocentrici, ma è bene sapere che anche le Piante si trovano nella stessa situazione. Su 58.497 censite fra 2015 e 2020, 2/5 risultano a rischio, più del doppio di quelle di mammiferi, uccelli e rettili messi insieme. Querce, aceri, magnolie, ebani e palissandri sono nella lista, e 571 specie si sono estinte nel selvatico dal 1755 fino a oggi.

Per quel che riguarda i Funghi, su 597 specie analizzate dalla IUCN, nessuna risulta estinta o estinta nel selvatico, ma 284 rientrano nelle categorie a rischio (CR, EN, VU).

La situazione in Italia

Il Mediterraneo è uno degli hotspot mondiali di biodiversità, e l’Italia ha elevati numeri di specie esclusive. Si parla di oltre 60.000 specie di animali e più di 12.000 specie di piante.

Però, fra le Piante risultano già estinte 11 specie, e a rischio il 43% delle 202 specie tutelate dalla Convenzione di Berna. Fra gli animali vertebrati, sono minacciati il 13% dei mammiferi, il 36% degli anfibi, il 19% dei rettili, il 27% degli uccelli nidificanti, il 2% dei pesci ossei marini, il 21% dei pesci cartilaginei e il 48% dei pesci ossei di acqua dolce. In totale, si parla di circa 240 specie a rischio.

Specie già estinte in tempi recenti e specie migliorate

In totale, la IUCN stima che si siano già estinte circa 902 specie dal 1500 fino ai tempi moderni, di cui 124 del Regno delle Piante e 778 di quello degli Animali. Per fare qualche esempio delle prime, diciamo l’olivo di Sant’Elena, l’alga marina di Bennett, Oeceoclades seychellarum, o Cyanea dolichopoda; fra i secondi, dodo, tilacino, ritina di Steller, lupo giapponese, tigre del Caspio, leone berbero, cervo di Schomburgk, bisonte del Caucaso, orso dell’Atlante, o Quagga. In tempi molto recenti (2016), il Melomys rubicola, un piccolo roditore della Nuova Guinea, e 23 specie degli Stati Uniti (2021), fra cui il picchio dal becco d’avorio, la parula di Bachman, 8 cozze d’acqua dolce, 11 specie delle Hawaii e i 2 pesci gambusia di San Marcos e Scioto madtom.

Allo stesso tempo, ci sono anche delle specie per cui la situazione è migliorata, grazie agli sforzi di conservazione. Dal 1993 a oggi, fra 28 e 48 specie di uccelli e mammiferi hanno migliorato il loro stato; solo fra 2010 e 2020, 9-18 specie di uccelli e 2-7 di mammiferi. Fra 2018 e 2019, la balenottera comune, la colomba rosata e il geco diurno di Round Island sono passati dalla classe EN a quella VU, mentre l’ibis eremita e l’albatro di Amsterdam dalla CE alla EN. Stesso discorso per il bisonte europeo, passato da VU a NT nel 2020. Nel 2021, miglioramenti del genere ci sono stati anche per il tonno pinna blu, il tonno rosso australe, il tonno alalunga o il panda gigante.

Le estinzioni sono sempre esistite, ma quelle di oggi hanno qualcosa di particolare

Si sente dire spesso che oggi siamo in una nuova Età geologica, l’Antropocene, così chiamata perché segna il momento in cui l’uomo inizia ad avere un enorme impatto sul pianeta. E si dice anche che ci troviamo nel bel mezzo della 6^ estinzione di massa. Secondo alcuni, sia l’Età che l’estinzione sono iniziate molti millenni fa, secondo altri devono ancora iniziare tutte e due ma ci manca poco. In ogni caso, si parla di un grande fenomeno di estinzione innescato dalle attività umane.

Ma perché viene chiamata “6^ estinzione”? Che significa “estinzione di massa”? È vero che siamo di fronte ad un fenomeno del genere e che il principale responsabile è l’uomo? E se una cosa simile è già accaduta in passato, cos’ha di particolare quella di oggi?

Gli eventi del passato e il tasso di estinzione di fondo

Da quand’è che esiste la vita sulla Terra, le estinzioni sono sempre esistite. Tant’è vero che, secondo le stime, di tutte le specie viventi mai comparse sul pianeta da 3.5 miliardi di anni fa ad oggi, almeno il 90%, prima o poi, è andato estinto. Detto in altre parole, di tutte le specie mai esistite, solo un 10%, una volta che è apparso, è sopravvissuto tanto a lungo che lo vediamo ancora oggi. Tutte le altre, chi prima e chi dopo, a un certo punto sono apparse e in un altro sono scomparse.

Ma c’è di più. Non solo le estinzioni ci sono sempre state, ma sono fenomeni talmente naturali che esiste perfino un tasso di estinzione di fondo: cioè, anche senza che accadano eventi apocalittici, nell’arco di un certo periodo di tempo alcune specie scompaiono lo stesso. Per via di una sorta di “maledizione” o “volere divino”? No. Semplicemente perché ci sono tante cause che possono scatenare un’estinzione, e non per forza sono catastrofiche come l’asteroide dei dinosauri. Il tasso di fondo, quindi, è una media di quante specie scompaiono in un certo arco di tempo, e lo si può ricavare andando a studiare i fossili negli strati rocciosi più antichi del pianeta.

Sulla base dei fossili dei mammiferi marini, che sono i meglio conservati, quello che si è scoperto è un tasso di estinzione di fondo per cui ogni anno avviene 1 estinzione su 1 milione di specie. Di sicuro i fossili non ce la raccontano tutta, perché non tutti gli organismi si lasciano dei resti fossili alle spalle. Ma i mammiferi marini sono quelli con l'archivio fossile più completo e, siccome loro e i mammiferi in generale esistono ancora oggi, permettono di fare un confronto realistico con il presente.

Oltre a tutto questo, sappiamo che in passato si sono verificati anche grandi e piccoli eventi particolari di estinzioni. Quelli più piccoli sono circa una trentina, quelli più grandi sono 5, e vengono detti “estinzioni di massa”: sono degli eventi in cui almeno il 75% delle specie viventi scompare in un arco di tempo molto breve – dove “molto breve” è da intendere con “geologicamente breve”, e quindi si parla di 1-2 milioni di anni.

Le cause di questi grandi eventi sono le più disparate, non sono mai le stesse per ogni evento, e spesso si parla di un insieme di cause e concause, più che di una causa unica. Comunque, le più frequenti riguardano un’intensa attività vulcanica, un cambiamento nella chimica o nel livello del mare, oppure un riscaldamento o un raffreddamento climatico. Tutti fattori che, per lo meno in passato, a loro volta sono stati scatenati dalla tettonica delle placche, dai cicli astronomici della Terra o del Sistema Solare, da impatti di asteroidi, o, secondo alcune teorie, perfino da Supernove o da Lampi Gamma.

E oggi? Tempi molto più brevi e numeri molto più alti

Ricapitolando. Le estinzioni sono un fenomeno più comune di quello che si pensa. Per di più, è la stessa IPBES ad affermare che, ogni anno, vengono scoperte 10.000-15.000 specie nuove di zecca. Ma allora è vero o no che oggi siamo nel mezzo di un’estinzione di massa? E se sì, che cos’ha di particolare rispetto a quelle passate?

La risposta è presto detta. Tenendo conto che, come si è detto, secondo la IUCN si sono estinte circa 900 specie dal 1500 fino a oggi (cioè in circa 500 anni), il tasso di estinzione attuale si aggira su 20-200 estinzioni all’anno per ogni milione di specie. Decisamente niente a che vedere con il tasso di fondo.

Ma, come se non bastasse, il tasso non è mai stato costante, e infatti quello dal 1500 al 1980 è più basso rispetto a quello dal 1980 in poi. Tra l’altro, teniamo presente che molte specie sono ancora poco studiate, che queste 900 scomparse sono per lo più vertebrati (il 3.5% delle specie conosciute), che alcune potrebbero essere già scomparse prima che le scoprissimo, e che altre sono già ora molto vicine all’estinzione. Tenendo conto di tutto questo, sono stati considerati diversi scenari, e si è provato a calcolare quanto tempo ci vorrebbe, con tassi di estinzione del genere, a raggiungere un valore del 75% come quello delle grandi estinzioni di massa. Le stime, dallo scenario peggiore a quello migliore, danno allora dei valori fra 250 e 54.000 anni. Di nuovo, nulla a che fare con i 1-2 milioni di anni di fondo. Ecco perché si può dire che ci si trova di fronte ad un nuovo fenomeno di massa.

Si potrebbe ribattere che gli archivi fossili sono incompleti, che quindi il tasso di fondo è una stima, e che perciò, se fossero più completi, si arriverebbe a scoprire un tasso più alto di quello stimato, o addirittura uguale a quello attuale. E si potrebbe anche dire che, così come esiste un tasso di estinzione di fondo, esiste anche un tasso di speciazione di fondo, cioè una misura di quante nuove specie nascono in un certo tempo: e se il tasso di speciazione fosse più alto di quello di estinzione?

Ma anche qui, il conto è presto fatto. È assolutamente vero che il tasso di fondo è una stima per difetto, perché, come si è già spiegato, non tutti gli esseri viventi lasciano resti fossili dietro di sé. Ma ricordiamoci anche che oggi ci sono 2 milioni di specie conosciute e 8 milioni stimate fra quelle realmente esistenti: come si può vedere dal grafico qui accanto, che mostra come è cambiata la curva della biodiversità negli ultimi 542 milioni di anni, stiamo parlando di un valore mai esistito prima nella storia della vita. In altre parole: la quantità di specie che esiste oggi è superiore a quella di qualsiasi altro momento nel passato. Perciò, se ci fosse stato un tasso di estinzione di fondo uguale a quello di oggi, e si fosse mantenuto per un periodo abbastanza lungo, noi ora non saremmo nemmeno qui ad avere questa conversazione, perché tutte le specie sulla Terra sarebbero scomparse già da molti milioni di anni. 

 Per quanto riguarda il tasso di speciazione di fondo, non ho trovato informazioni attendibili ma, di sicuro, è stato più alto di quello di estinzione di fondo negli ultimi 65 milioni di anni, altrimenti l’impennata di biodiversità che si vede nel grafico non ci sarebbe mai stata. Che però sia più alto anche del tasso attuale ne dubito, per lo meno fra le specie più studiate. 

Per cui sì, oggi stiamo vivendo un nuovo grande fenomeno di estinzione. Secondo il rapporto “Living Planet 2022” del WWF, su 32.000 popolazioni di 5230 specie si è osservata una riduzione media della popolazione del 69% fra il 1970 e il 2018. Perciò si parla anche di un fenomeno che avviene in tempi molto brevi rispetto a quelli naturali, oltre che di numeri molto più alti di quelli di fondo. È questo che ci fa dire che ci troviamo davanti ad un grande fenomeno di estinzione, e che è di portata diversa rispetto a quelli del passato. E c’è anche un altro fattore: le cause, che per lo più sono dovute alle attività umane.

Ma quindi quali sono le cause di questa riduzione di biodiversità?

Come nel caso dei grandi eventi di estinzione del passato, anche in questo caso, spesso, c’è più di una causa dietro alla scomparsa di una specie, e non è raro che ci siano anche delle concause. A gradi linee, comunque, le maggiori cause sono queste: perdita di habitat, sovrasfruttamento delle risorse, inquinamento, cambiamento del clima e specie invasive.

PERDITA DI HABITAT. Si intende l’alterazione o la scomparsa del tipico ambiente in cui una specie vive. Oggi il 75% delle terre emerse non coperte da ghiacci risulta molto alterato, e questo per far spazio a coltivazioni o allevamenti intensivi, per sfruttare giacimenti di georisorse, o per espandere città. E infatti, secondo la IPBES, il 13% delle terre libere dai ghiacci è occupato da terreni agricoli, il 26% da allevamenti e il 4% da zone urbane o industriali. Alcuni esempi di specie che ne risentono sono i delfini di fiume di Asia e Sud America, gli oranghi dell’Indonesia, il cebo barbuto del Brasile, l’ibis eremita del Marocco, o la colomba rosata dell’Isola di Mauritius.

SOVRASFRUTTAMENTO DI RISORSE. La Terra genera costantemente risorse, organiche e non organiche, e noi, come tutti i viventi, le utilizziamo. Il problema è che ne consumiamo di più di quelle che il pianeta riesce a ricreare. Il famoso “Overshot Day” segna il giorno dell’anno in cui i nostri consumi di risorse naturali superano la produzione annuale della Terra. In un mondo perfetto questo giorno non si raggiungerebbe mai, perché avremmo dei comportamenti tanto equilibrati da chiudere ogni anno con un eccesso di risorse inutilizzate; e invece, già nel 2021, questo giorno lo abbiamo raggiunto il 29 luglio. Detto questo, tanto per fare qualche esempio di “risorsa vivente”, l’alca impenne e il parrocchetto della Carolina sono stati cacciati fino all’estinzione. La popolazione di chinchilla, sempre a causa della caccia eccessiva, si è ridotta del 90% in appena 15 anni, mentre la vigogna delle Ande è stata ridotta a soli 6000 esemplari dalla conquista spagnola fino agli anni ’60. Il Blue walleye, un pesce dei Grandi Laghi dell’America del Nord, dopo aver rappresentato un pesce di valore da fine 1800 agli anni ’50, è stato pescato fino all’estinzione negli anni ’80. Caso più esemplare, quello del bisonte americano: partito da una popolazione stimata di 60 milioni di individui prima del 1800, è passato a meno di 1000 agli inizi del '900.

INQUINAMENTO. Ci si riferisce soprattutto all’inquinamento di aria, acqua, suolo e cibo. Quello dell’acqua degli oceani causato dalla plastica, per esempio, interessa praticamente tutta la catena alimentare del mare. Ma per fare degli esempi si potrebbero citare la foca monaca delle Hawaii, la tartaruga marina comune, la tartaruga verde, lo zifio, lo steno, o la berta piedicarnicini. L’inquinamento di aria, piante e suolo da fitofarmaci, invece, colpisce in modo particolare gli insetti impollinatori, primi fra tutti le api, ma anche bombi, farfalle, falene e sirfidi.

CAMBIAMENTO DEL CLIMA. Le barriere coralline, che rappresentano la base della catena alimentare del mare, vengono danneggiate da fenomeni meteo estremi, oppure da valori più alti di temperatura, acidità e livello dell’acqua. Meno ghiaccio e temperatura più alta di aria e acqua sono un problema per orsi polari, pinguini di Adelia, leopardi delle nevi dell’Asia Centrale, o stambecchi alpini. Temperature più elevate sono un grosso disagio per le volpi volanti, che non sono fisiologicamente capaci di tollerare valori oltre i 42°C senza subire danni; nel 2014, in Australia, un singolo giorno di caldo estremo ne ha uccise circa 45.000. E anche alcune specie di tartarughe marine, perché diminuisce il rapporto maschi/femmine nelle nascite. E l’incremento del livello del mare, come già accennato, ha già causato la prima estinzione accertata di un mammifero a causa del clima, cioè quella del roditore Melomys rubicola.

SPECIE ESOTICHE INVASIVE. Si intende quelle specie che non sono native di un certo habitat, che sono arrivate fin lì spontaneamente (per esempio a causa del cambiamento del clima) o con l’aiuto dell’uomo (volontario o accidentale), e che causa grossi danni all’ecosistema locale. Vedi allora la bettongia del deserto, in Australia, dichiarata estinta nel 2016 a causa dell’introduzione di topi e volpi. Alcune specie di pino del Portogallo attaccate dal nematode del legno originario del Nord America. La coccinella arlecchino dell’Asia che è un’agguerrita competitrice di quella europea. O lo scoiattolo grigio americano che rovina la piazza a quello rosso del Vecchio Continente.

AGRICOLTURA INTENSIVA. Aspetto gradevole, grossa taglia, maturazione veloce e alte rese. E poi facili da raccogliere, più conservabili, più lavorabili, e disponibili tutto l’anno. Per questi e altri motivi, anche se di varietà, ecotipi e cultivar ne esistono così tanti che non si conoscono i numeri esatti, l’agricoltura industriale oggi realizza i 2/3 della produzione mondiale con appena 9 specie di piante terrestri. Per motivi simili, si stimano 8800 razze di animali da allevamento, ma solamente 8 rappresentano il 95% della produzione di cibo. Tutto questo significa che le varietà o le razze meno redditizie, anche se migliori dal punto di vista nutrizionale, vengono piano piano abbandonate, fino al punto di scomparire.

Le conseguenze: perché ci dovrebbe importare dell'estinzione di una specie?

Effetti sotto gli occhi di tutti

Arrivati a questo punto, qualcuno potrebbe pensare che si stia parlando soltanto di numeri e nomi su una banca dati virtuale, che si riflettono poco o per niente nella realtà. E da un lato sarebbe comprensibile: in fondo, se molti si guardano intorno nella propria quotidianità, non direbbero mai che sia in corso un’estinzione. Si vedono specie sparire a vista d’occhio? Si percepiscono effetti sulla nostra vita? Molti potrebbero rispondere “No”.

Ma tutto questo non ci deve ingannare. Come spesso accade quando si parla di fenomeni naturali, anche questo si verifica su scala globale, ha cause ed effetti con andamenti esponenziali e a lungo termine. E soprattutto, poiché tutto è connesso (e non è solo un aforisma da post di Facebook), si tratta di fenomeni che tirano in ballo teorie come la Teoria della Complessità, o la Teoria del Caos. Perciò, non si può pretendere di comprenderli guardando soltanto a quello che succede oggi, intorno a casa propria, e ragionando secondo rapporti di causa-effetto lineari.

Comunque, se proprio state cercando delle evidenze sotto i vostri occhi, basta guardare nelle campagne e sulle vostre tavole. Perché animali come le lucciole e fiori selvatici come speronella, fiordaliso, gittaione, garofanino selvatico o nigella sembrano sopravvissuti soltanto nei ricordi dei nostri nonni? Nel primo caso, colpa dell’abuso di pesticidi in agricoltura, dell’urbanizzazione e dell’inquinamento luminoso. Nel secondo, chiedetene il conto alla riduzione degli impollinatori per i motivi che ho spiegato in precedenza. E perché i nostri anziani si lamentano di una dieta che oggi non ha più la varietà e i sapori dei loro tempi? Come ho detto prima, colpa dei metodi agroalimentari industriali che scartano varietà e razze meno redditizie (e quindi le fanno estinguere) a vantaggio di quelle più produttive.

Effetti "invisibili"

Senza entrare nello specifico, vorrei far riflettere su alcune potenziali conseguenze generali. Conseguenze che, di nuovo, si ripercuotono a livello globale e a lungo termine, non nell’immediato e sotto casa nostra, e di cui è quindi difficile rendersi conto.

Per esempio, una carenza di risorse primarie. Le foreste fanno da sostentamento a circa 1 miliardo di persone, e rappresentano una vera e propria casa per circa 300 milioni, cioè circa 2000 popolazioni indigene. La barriera corallina rende possibile la pesca, la coltura di perle, il turismo, e altre attività su cui fanno affidamento circa 500 milioni di persone. Quasi il 50% del mercato dei farmaci si basa su sostanze derivate da piante, funghi o animali. E 1/3 degli alimenti umani dipende dall’azione degli insetti impollinatori.

Oppure, guardiamo agli effetti diretti sulla salute. Ogni essere vivente, compreso l’uomo, senza rendersene conto vive in equilibrio con migliaia di specie di microrganismi che “popolano” il suo corpo: si stima che siano 1200 solamente le specie di batteri che colonizzano noi umani, che sono essenziali per il nostro sistema immunitario. I molti tipi di inquinamento a cui può essere sottoposto il nostro corpo o l’ambiente che ci circonda, quindi, possono ridurre o estinguere le popolazioni di questi microrganismi, e quindi abbassare l’efficacia del sistema immunitario.

Esempi di effetti specifici

Per rispondere alla fatidica domanda “Cosa succede se una specie si estingue?”, il modo migliore è quello di andare a guardare alle “specie chiave”, dette anche “chiave di volta” o “focali”. Sono delle specie che, per l’appunto, hanno la stessa funzione della chiave di volta di un arco: è una sola, ed è sottoposta ad una minima pressione da parte di tutte le altre pietre, ma se togli quella viene giù tutto l’arco. Fuori di metafora, sono delle specie anche poco numerose in un ecosistema, e che subiscono un impatto medio/basso se altre si riducono; ma se scompaiono loro, siccome svolgono delle attività eccezionali, il resto dell’ecosistema ne viene danneggiato molto e in breve tempo.

In ambiente marino, un esempio importante è quello della lontra di mare della Columbia Britannica, in Canada. Rimescolando il fondale alla ricerca di molluschi, favorisce la nascita di praterie di Zostera marina più resistenti e con maggior varietà genetica, che a loro volta sono rifugio per pesci e crostacei, forniscono cibo ad animali come balene grigie e tartarughe, assorbono gas serra e filtrano inquinanti e batteri dall’acqua.

In ambiente fluviale, si può fare l’esempio del castoro. Abbattendo gli alberi più vecchi per costruire le sue dighe, consente a quelli più giovani di farsi spazio, e le dighe stesse rappresentano molti tipi di benefici per anfibi, salmoni e uccelli canori.

In un ambiente desertico tipo l’Avon Wheatbelt dell’Australia, durante un certo periodo dell’anno, la ghianda della Banksia prionotes è l’unica fonte di nettare per i fringuelli nittivori, che sono importanti impollinatori dell’ecosistema del posto. Nel deserto di Sonora del Messico, invece, l’Olneya tesota è un albero sempreverde, capace di vivere fino a 800 anni che, grazie alla sua larga chioma, crea ampie zone di rifugio e un microclima che può concentrare fino a 100 specie vegetali per ogni ettaro.

Nell’ambiente di montagna, il caso del lupo grigio del Parco di Yellowstone è quello più esemplare. In generale, la sua presenza controlla il numero degli erbivori, e questo significa più vegetazione e meno danni alle coltivazioni. La sua scomparsa dal Parco negli anni ’20 portò ad un aumento dei cervidi, quindi diminuzione dell’alberatura e dei castori, di conseguenza riduzione delle loro dighe e aumento dell’erosione; in più, aumento dei coyote, e quindi calo di piccoli erbivori e dei loro piccoli predatori. Una volta reintrodotto negli anni ’90, invece, l’altezza degli alberi quintuplicò in meno di 6 anni. Tornarono i castori e le loro dighe, e con loro altri animali che beneficiano delle loro costruzioni. I coyote calarono, quindi tornarono a crescere piccoli erbivori e i loro predatori. Cervi, aquile calve e orsi crebbero grazie al più alto numero di carcasse lasciate dai lupi, e si ridusse l’erosione dei fiumi grazie al controllo sugli erbivori e quindi all’aumento della vegetazione.

Le soluzioni esistono, ma concentriamoci su quelle vere

Come per tutti i problemi del mondo, anche per quello della perdita di biodiversità le soluzioni esistono. L’importante, però, è saper distinguere fra quelle false, quelle palliative e quelle vere.

Soluzioni false

C’è qualcuno, tipo la IPBES, che propone soluzioni tipo tassare la produzione e il consumo di carne, visto che l’allevamento intensivo, come si è detto, è una delle cause principali. Ma la storia dovrebbe avercelo insegnato più di una volta: se si cerca di ottenere un cambiamento attraverso obblighi e punizioni, si otterrà esattamente l’effetto contrario.

Qualcun altro propone la de-estinzione che, più o meno, consiste nella trama di “Jurassic Park”: creare dei cloni di specie estinte, allevarle in cattività come già si fa con qualsiasi specie a rischio, e poi rilasciarle di nuovo nel loro ambiente. Il problema principale, però, non è tanto quello etico, dei bassi tassi di successo, dei costi, della macchinosità, del tempo, del livello tecnologico, o di non poter comunque ricreare delle copie esatte: il problema vero è che agisce sul sintomo, ma non sulla causa.

Se poi ci spingiamo verso gli estremismi, si trovano anche proposte come il controllo demografico o l’estinzione umana volontaria. In sostanza, nel primo caso si tratterebbe di limitare con la legge il numero di nascite di esseri umani; nel secondo caso, si propone addirittura di non procreare più in modo da arrivare piano piano ad una auto-estinzione. Insomma, stiamo parlando di tipici casi in cui, pur di non uscire dalla propria zona di comfort, si scovano le soluzioni anche sotto terra. Cioè, di fronte ad un problema, piuttosto che credere nelle proprie potenzialità, tirare fuori coraggio, perseveranza e determinazione, prendersi le proprie responsabilità, e unire le forze con gli altri, si preferisce dirottare gli sforzi su una falsa causa, ma più accomodante, oppure non fare proprio niente e anzi uscire di scena.

Soluzioni palliative

Intendo quelle soluzioni che sono senza dubbio efficaci e da portare avanti, ma che non devono prendere la priorità su quelle definitive. Per un motivo molto semplice: per usare una metafora, sono soluzioni che fermano l’emorragia della ferita, però non la richiudono. Mi riferisco a soluzioni come contrastare il bracconaggio con la legge, creare aree protette, allevare o coltivare specie a rischio in cattività, o conservarle dentro banche del seme. Sono delle soluzioni necessarie, perché quelle che agiscono alla radice del problema richiedono tempo. Però non bisogna illuderci che bastino queste a risolvere tutto.

Soluzioni vere

Per capire quali sono le vere soluzioni, basta ripensare al paragrafo dove ho parlato delle cause e ragionare esattamente al contrario. Passare ad un sistema agroalimentare sostenibile. Prevenire il bracconaggio. Arrestare il cambiamento del clima. Azzerare l’inquinamento. Tutte cose che, a loro volta, si possono raggiungere agendo su tanti fronti contemporaneamente, per i quali vi rimando ad articoli che ho già scritto in precedenza (li trovate in basso in "Articoli correlati"). In più, un fattore che è forse quello alla base di tutti quanti: creare consapevolezza nelle persone sul problema e sulle sue soluzioni, attraverso una buona divulgazione e una buona educazione.

Tutto è connesso: essere consapevoli di questo e del nostro vero potenziale salverà il mondo

Se oggi molte persone non conoscono, negano, o se ne fregano del fenomeno della perdita di biodiversità, i motivi possono essere vari.  Poca consapevolezza sull’argomento. Molte informazioni, ma sbagliate. Interesse di chi fattura miliardi, potere e controllo tramite le attività che fanno proprio parte delle cause. Oppure, per la paura di non poter fare niente per risolverlo, per quella di dover mettere in discussione proprie credenze e abitudini, o per la fatica di fare la propria parte.

Ma forse il principale di tutti i motivi è il nostro egocentrismo. Noi umani abbiamo da sempre il brutto vizio di sentirci eccezionali, per il semplice fatto che non abbiamo mai conosciuto nessun essere vivente capace di essere come noi e fare ciò che facciamo noi. E infatti questo nostro protagonismo si vede riflesso benissimo in credenze spirituali che mettono l’uomo al centro di tutto, o in modelli socio-economici che credono di poter sfruttare il resto del mondo senza alcun equilibrio e senza alcun rischio di ritorsione. Per tirare l’acqua al nostro mulino facciamo sparire alcune forme di vita? E chi se ne frega! Tanto non abbiamo bisogno di loro, ce la caviamo benissimo anche da soli.

Ma la verità è molto più complessa (e affascinante) di così. Ed è fatta di almeno due punti. Il primo è che, come ho già accennato, quello delle estinzioni è un fenomeno che ci sfugge facilmente perché, come tanti altri fenomeni naturali, agisce su scala globale, ha cause ed effetti con andamenti esponenziali e a lungo termine, e ha dei meccanismi governati dal Caos e dalla Complessità. Il secondo, è che è vero che noi umani siamo particolari, ma in un altro senso. Siamo l’unico esempio su questo pianeta di materia evoluta fino all’autocoscienza, e questo ci regala un potere enorme che, però, è come quello di “Spider Man”: “Da grandi poteri derivano grandi responsabilità”.

In termini di biomassa, noi rappresentiamo appena lo 0.01% degli esseri viventi sulla Terra. Se 4.5 miliardi di anni del pianeta corrispondessero ai 365 giorni di un anno, sarebbe come dire che Homo sapiens è apparso alle 23:25 del 31 dicembre, e che abbiamo creato le prime società stanziali alle 23:58m:30s dello stesso giorno. Eppure, basta guardarsi intorno per vedere l’impatto che abbiamo. La nostra autocoscienza fa quindi la differenza come dal giorno alla notte. Ma attenzione: la buona notizia è che la fa anche nel bene! Per risolvere il problema delle estinzioni (così come tanti altri), c’è bisogno di creare un nuovo mondo che sia una sintesi fra quello di ieri, dove l’uomo era “schiavo” della natura, e quello di oggi, dove la natura è “schiava” dell’uomo. Un mondo dove l’uomo è pienamente consapevole del suo potenziale e del fatto che la realtà è olistica, e che quindi usa tutto quel potere per mantenere un sano equilibrio. Insomma, non c’è alcun bisogno di limitare il nostro potere con controlli demografici. C’è soltanto bisogno di usarlo per bene.


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